Quella libertà audace di avere fiduciaEra stata numerosa e intensa la partecipazione dei giovani all'incontro col vescovo: alcune centinaia di ragazzi, dai sedici anni in su, provenienti delle varie realtà della diocesi a me affidata. Alla domanda postami alla fine – che cosa vorrebbe ci restasse di questo incontro? – ho risposto così: il mio auspicio è che resti in tutti una domanda. Si tratta dell'interrogativo decisivo, da porsi ogni giorno nel profondo del cuore: che fiducia abbiamo in noi stessi? Sono convinto che la malattia sottile e insidiosa del tempo che viviamo, quella che è alla base della crisi che abbiamo attraversato come Paese e che non è ancora finita, sia proprio la mancanza di fiducia. Chi non ha fiducia, non spera, e chi non spera non osa, fuggendo così davanti alle sfide e alle risorse della vita. Ritrovare la fiducia in se stessi, negli altri, in Dio, è la medicina dell'anima di cui tutti abbiamo bisogno, di cui ha bisogno la nostra società per ripartire veramente e con frutto.
Come fare? Provo a indicare i passi che ho proposto ai giovani. Il primo, quello che ritengo fondamentale, è l'amore: chi non ama non saprà mai che cosa vuol dire fiducia, perché l'amore è fidarsi dell'altro, affidarsi all'altro e confidare nel rapporto d'amore come sorgente di vita e di speranza. Non si tratta solo di amare qualcuno: ciò che è necessario è aprirsi alla relazione di uscita da sé e di dono che è il fondamento del rapporto d'amore con l'altro, con Dio e con il prossimo. Scopriamo noi stessi nella ricchezza delle nostre potenzialità (e non c'è nessuno che non ne abbia!) e impariamo ad avere fiducia in esse se iniziamo ad amare e a servire qualcuno, specie se piccolo e povero, sofferente e perfino ribelle alla vita, e se ci impegniamo a vedere nell'altro un soggetto degno d'amore e capace di donare amore. Se non diamo il primo posto all'altro, se non accogliamo la sfida di Dio e del prossimo da amare, non troveremo neanche noi stessi, né riusciremo a discernere le possibilità che possono rendere la nostra vita bella e degna di essere vissuta.
Dare posto all'amore significa però inseparabilmente prendere sul serio le potenzialità del male: bisogna riconoscere che spesso non teniamo conto con sufficiente onestà della zizzania che ostacola il bene, in noi e intorno a noi. Illudersi che nel mondo non ci sia il male non è solo ingenuità, è complicità, che può essere perfino involontaria. Chi ha fede sa che l'Avversario è all'opera e che questo non deve spaventare se si sa di poterlo vincere con la forza che viene dall'alto: ignorarne l'azione vuol dire fare il suo gioco. In un passo della seconda lettera ai Tessalonicesi (2, 6-7) compare la misteriosa figura di qualcosa o qualcuno che trattiene e contiene (katéchon), arrestando o frenando l'assalto dell'Anticristo, ma che dovrà togliersi o esser tolto di mezzo affinché l'Anticristo si disveli, prima del giorno del Signore: «Il mistero dell'iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo trattiene» (v. 7).
L'interpretazione di questa figura ha appassionato la riflessione cristiana e non solo, fino ai dibattiti sulla “teologia politica” dei nostri giorni. Non poche delle decisioni che hanno segnato la nostra civiltà si sono collegate a questa ricerca, attraverso l'opera di grandi interpreti, da Agostino a Dante, da Dostoevskij a pensatori a noi contemporanei (Massimo Cacciari vi ha di recente dedicato un libro, Il potere che frena, pubblicato da Adelphi). Quale che sia la proposta interpretativa, la questione aperta è vitale: riconoscere con lucidità ciò che si oppone al bene per resistervi nel modo più adatto e ciò che invece lo favorisce per assecondarlo, è premessa a ogni scelta d'impegno a favore di tutti. Senza la lotta col male, nessuna fiducia sarà realistica e feconda. Un terzo atteggiamento necessario per vivere è la libertà dal calcolo e dalla pretesa assillante che allo sforzo impiegato corrispondano i risultati auspicati. Certo, non è difficile osservare come fra i giovani sia diffusa la mancanza della speranza, e si faccia strada perfino la rassegnazione a non oter vedere il frutto dell'eventuale bene compiuto. Eppure, fra loro tutti cercano la felicità, anche se spesso non sanno riconoscere qual è e dove si trovi. Qui la fede in Dio rivela la sua carica singolare di umanizzazione: chi si fida delle vie a volte misteriose dell'Altissimo, non è meno, ma più umano, non meno, ma più coraggioso e audace nel promuovere e custodire la felicità di tutti e di ciascuno. Il Dio della fede cristiana non solo non è l'avversario dell'uomo, al contrario è il più affidabile collaboratore della gioia e della pace del cuore umano, fatto per Lui. «Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te – Ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposi in te» (Confess. 1, 1, 1).
Quel che occorre è la semina: i frutti vanno lasciati nelle mani di Colui che solo sa quando e come potranno arrivare. «Forse, la prossima primavera, il pane uscirà da questo solco. Forse, verranno invece la siccità e la grandine… L'essenziale non è nel raccolto, l'essenziale è nella semina, nel rischio, nelle lacrime. La speranza non è nel riso e nella pienezza. La speranza è nelle lacrime, nel rischio e nel loro silenzio», scrive il pensatore ebreo André Neher (L'esilio della Parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Casale Monferrato 1983, 246). Ciò che conta, è fidarsi: e per chi crede fidarsi di Dio è sapere che non è mai troppo tardi perché ci sia un'altra possibilità, che consenta di ricominciare, rischiando per amore. La via per vivere questa libertà audace è la gratuità, condizione indispensabile per osare ed essere fiduciosi quali che siano i risultati raggiunti. Educarsi alla gratuità è educarsi alla gioia che non delude. Per il credente questo vuol dire tornare sempre di nuovo al Vangelo, mettendosi in gioco nella decisione per Colui che ci ha amati fino alla fine e che chiede amore senza misura. Solo chi è disposto ad amare così non rimanderà a domani ciò che può fare oggi. Rinviare le decisioni importanti non aiuta a realizzare se stessi, ostacola anzi il cammino per essere liberi e felici.
Quando si comprende la propria “vocazione”, occorre seguirla, mettendosi in gioco e aprendosi alla gioia che viene dall'alto a chi non si sottrae alle esigenze del dono di sé. Il credente sa che la via regale per accettare la sfida è la preghiera, fatta di ascolto perseverante di Dio e degli altri che ci portino a Lui. Nella preghiera i desideri si purificano e vengono a incontrare il desiderio di Dio. Pregare vuol dire dare tempo all'azione divina su di noi, lasciandosi amare da Dio, facendosi ascolto, docilità profonda e dono davanti a Lui e per gli altri. Vivere tutto questo è sorgente di luce e di forza, di gioia profonda e di pace. Questo vuol dire la Pasqua di Gesù, morto per ognuno di noi e risorto alla vita per dare a tutti coloro che vogliano la forza di amare. È questa la Pasqua di cui mi sembra abbiamo tutti immenso bisogno!
[Da “Il Sole 24 Ore” del 5 aprile 2015]