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L’Europa che spende ma non cresce

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La nuova Bussola quotidiana - pubblicato il 23/03/15
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Il tasso di natalità è importante tanto quanto gli indicatori economici: senza nascite niente crescitadi Matteo Borghi

Quando si parla di crisi economica si citano, giustamente, le statistiche su Pil, produzione industriale, spread e tutti gli altri indicatori che danno l’idea dell’andamento di un Paese. Poche volte, però, si ricorda un dato che – più di altri – fornisce la misura della sostenibilità reale a lungo termine di un sistema economico: la natalità.

Un Paese che fa figli non crea solo una società più nuova, aperta, dinamica ma garantisce anche una solidità a lungo termine dell’economia. Vediamo qualche numero. Come ha ricordato per la prima volta la Cancelliera tedesca Angela Merkel nel corso di una visita di Stato in Moldavia nel 2012 l’Unione europea, con i suoi 511 milioni di abitanti, rappresenta poco più del 7 per cento della popolazione mondiale ma assomma al suo interno il 50% della spesa globale per il welfare (a fronte del 25% del Pil). Già a sentire questi dati è chiaro a chiunque che si tratta di una condizione difficilmente sopportabile nel prossimo futuro a fronte di una crisi economica che erode il prodotto nazionale aumentando allo stesso tempo la platea dei bisognosi d’assistenza pubblica.

A questa difficoltà, si spera temporanea, si aggiunge però il costante calo delle nascite, che vede i Paesi europei ottenere un poco invidiabile primato mondiale. Stando ai dati del Cia World Factbook il maggior tasso di natalità si registra nei Paesi africani a partire dal Niger con le sue 46.12 nascite ogni mille abitanti. L’Europa, come accennato, va molto peggio. La prima nazione è l’Islanda (13,09), seguita da Francia (12,49), Inghilterra (12,22) e Norvegia (12,09). Se si considera solo l’Unione europea il primo Paese, la Francia, si trova al 159esimo posto su 224 classificati. Le tre nazioni più popolose dell’area euro – la Spagna, la nostra Italia e la Germania – occupano rispettivamente il 197esimo, il 212esimo e il 219esimo posto.

Non è un caso se la popolazione europea sarà destinata a scendere costantemente nel corso del Ventunesimo secolo. Secondo le proiezioni Onu gli abitanti dell’Europa geografica potrebbero scendere dagli attuali 742 milioni ad appena 632 già nel 2050 per toccare, nell’ipotesi peggiore, i 405 milioni nel 2100 (la proiezione più accreditata dice 674 milioni di abitanti, che sono comunque 68 milioni in meno di oggi).

Si potrebbero aggiungere altri dati ma, per non annoiare il lettore, ci fermeremo qui. Anche perché questi non aggiungerebbero nulla alle conclusioni che possiamo trarne. La prima è che la continua decrescita della popolazione europea è di per sé insostenibile da un punto di vista sociale ed economico: se il trend si confermasse nei prossimi decenni ci sarebbero sempre meno giovani a sostenere il benessere di un’ampia popolazione di anziani che in Occidente gode di un’aspettativa di vita sempre più lunga. Si tratterebbe di una vera e propria spirale negativa da cui si può uscire solo invertendo il costante calo demografico: quantomeno per ottenere quel tasso di ricambio che i demografi identificano in una media di 2,1 figli per donna.

La seconda considerazione è che, visto che lo Stato non può ovviamente obbligare a fare figli, serve un ripensamento globale delle politiche di welfare. Se si continuerà a investire così tanto nell’assistenza (in Italia siamo quasi al 70% delle entrate tributarie, in linea col resto d’Europa) questa spesa non potrà che continuare a innalzarsi col progressivo invecchiamento della popolazione fino a diventare insostenibile.

A conferma si possono citare i dati Istat che evidenziano come la spesa per le pensioni sia in continuo aumento: dal 14,83% del Pil nel 2001 siamo arrivati al 16,85% del 2011. Le entrate dell’Inps sono passate dai 172 miliardi del 2000 ai 221 del 2009 mentre le uscite sono passate dai 228 miliardi del 2000 ai 283 del 2009 con un gap costante di una cinquantina di miliardi l’anno, ripianati dalla fiscalità generale. Non è tutto. Il 
Censis stima che a causa dell’invecchiamento della popolazione 4,1 milioni di persone in Italia sono attualmente portatrici di disabilità (il 6,7% della popolazione), nel 2020 diventeranno 4,8 milioni, per arrivare addirittura a 6,7 milioni nel 2040. La spesa totale per le disabilità ha registrato un forte incremento, superiore al 20% in termini reali tra il 2003 e il 2011, passando da 21,2 miliardi di euro a quasi 26 miliardi.

È evidente che il welfare state, così com’è, oltre a non poter funzionare in eterno e anzi dà già oggi vistosi segni di cedimento. Forse varrebbe la pena ribaltare il ragionamento dando vantaggi fiscali alle famiglie, magari con l’introduzione del quoziente familiare. Sarebbe un sistema equo che permetterebbe di tassare di meno i nuclei familiari più numerosi, con maggior bisogno di risorse economiche per sostentarsi. Uno studio della Cgia di Mestre del novembre scorso ha evidenziato come le imposte sulle famiglie siano cresciute del 40,4% dal 1995 al 2013 con un aggravio totale di ben 4.400 euro rispetto a diciotto anni fa. Anche bilanciando questo dato con l’aumento del reddito disponibile si ottiene una perdita secca del potere d’acquisto del 19%. Complice anche la crisi dal 2007 al 2013 ogni famiglia italiana ha avuto circa tremila euro l’anno in meno da dedicare alla crescita e alla libera educazione dei propri figli. Una situazione aggravata nel 2014 da nuovi aggravi di tasse sulla casa (otto famiglie su dieci sono proprietarie di immobile).

Da questo punto di vista non sarebbe più utile pensare di bilanciare i benefici? Ridurre la spesa per il welfare per aumentare quella sulle famiglie darebbe verosimilmente un impulso alla crescita demografica. Sarebbero così le nuove generazioni a prendersi cura di quelle più anziane. Già oggi il famoso Terzo settore conta 4 milioni e mezzo di volontari, fra cui molti giovani. Sarebbe bello se in futuro potesse aumentare. 

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