In cinque o sette anni il Medio Oriente si svuoterà definitivamente dei cristiani, se non cambia subito qualcosa.A Dohuk, città del nord del Kurdistan iracheno, a febbraio, anche lui dava una mano con suo papà alle attività della Caritas per le decine di migliaia di sfollati come lui, da Mosul e Qaraqosh.Diciott’anni, esile, lo sguardo nero come la pece, timido ma curioso, Foco presidiava la sede quasi aspettando che qualcuno gli affidasse una mansione, un compito, per ammazzare il tempo che dopo la fuga gli si era improvvisamente liberato.
Foco, questo il suo nome, e sua sorella Lary, chiamati così dai genitori molto legati al movimento dei Focolari, sono solo due tra le migliaia di ragazzi cristiani che, con le loro famiglie, la mattina del 6 agosto (Foco ricorda l’ora, verso le 11) sono dovuti partire. Scappare prima possibile dalla morsa violenta di Isis. «Avevamo una profumeria a Qaraqosh – racconta – un bel negozio, con la clientela di un certo livello. Quando abbiamo capito che stavano per arrivare i terroristi, siamo scappati. Tutti i cristiani del mio villaggio sono fuggiti. Ci siamo rifugiati qui, nel Nord del Kurdistan, che resta una zona sicura. Il nostro negozio è stato razziato, così come la nostra casa. Non ci resta più nulla di quello che possedevamo. Ora siamo qui, in attesa del permesso di entrare in Francia, dove vive una zia. Per ricominciare da capo».
“In attesa di ripartire”: la descrizione della fuga, decisa quando ormai il tam tam dei messaggi di amici e parenti confermava l’avanzata inarrestabile degli assassini, approda qui, in Kurdistan. Una sosta temporanea in un luogo sospeso nel tempo come può essere la sistemazione precaria in un campo profughi per chi è stato privato di tutto e si sente braccato. Ma l’andarsene per salvare la pelle approda, alla fine, anche al desiderio di una ri-partenza, alla speranza di una ripresa.
Oggi in Iraq sono oltre due milioni gli IDPs (internal displaced people, “sfollati”), come li definisce l’Onu, persone che perdono la loro casa, ma restano nel loro Paese. Un mare di persone che da mesi vive o in campi allestiti con tende o caravan su pezzi di terra brulla alle periferie dei centri urbani o in parchi cittadini (come quello del cuore di Erbil a cura della chiesa caldea), o in edifici in via di costruzione. Si accalcano anche quattro o cinque famiglie in appartamenti di condomini spesso ancora allo stadio del cemento grezzo, senza intonaco, né pavimenti, né infissi.
Pare che ogni giorno una settantina di cristiani lasci la patria per guadagnarsi un futuro altrove. Per quanto incerta, almeno è un’ipotesi di futuro. Il flusso è continuo, un’emorragia che indebolisce l’Iraq privandolo soprattutto della sua porzione cristiana. Prima del 2003 i cristiani erano un milione e mezzo. Oggi pare siano attorno ai 400.000. Anche se non sono solo cristiane le vittime del contagio della violenza praticata da Isis.
Mosul, sede dell’autoproclamato califfo, dallo scorso agosto non conta più cristiani. Erano 15.000. Il vescovo, Mons. Nona ha dovuto lasciare la città per la minaccia di Isis («se non ti converti o te ne vai o sei morto»). La scorsa estate si è rifugiato a Erbil, dove ha trovato ospitalità presso il vescovo della città, Mons. Warda. Ma presto si trasferirà in Australia perché è stato eletto vescovo della comunità caldea che oggi conta laggiù 50.000 fedeli. E ci sarà un suo successore nella sua Mosul ora che la chiesa caldea da lì è stata cacciata? Ma che sta succedendo alla chiese cristiane del Medio Oriente? La diaspora non è più dei singoli, ha delle proporzioni che stanno cambiando la geografia di comunità antichissime nate qui. «Se continua così, entro 5-7 anni non ci saranno più cristiani in Medio Oriente», osserva Mons. Warda. Non c’è spazio per illusioni.
Nessuna pagina scritta può contenere ciò che si vede in un campo profughi, i piedi nudi dei bambini che a gennaio non hanno scarpe e giocano in ciabatte tra ciottoli e fango, o l’appello per la distribuzione delle uova o di qualche altro bene….Né una pagina può lasciarti penetrare dall’odore che si respira in stanze spoglie dove vivono cinque o sei famiglie insieme, i materassi sono impilati di giorno per fare spazio alla vita e si cucina nel corridoio condiviso su fornelli improvvisati. Ma può documentare ciò che tiene in piedi queste persone: il desiderio di ripresa, logorato, minacciato, ma resistente e tenuto vivo da quel filo sottile di solidarietà che può venire anche da un distratto Occidente. «Non vogliamo solo dare ai profughi cibo o coperte – spiega Mons. Warda – ma vorremmo aiutarli ad aiutarsi. Per esempio sostenendoli con un contributo per pagare l’affitto di una casa per loro qui. Erbil non è il loro villaggio, ma almeno non è straniera. Qui possono parlare la loro lingua, mangiare il loro cibo, incontrare i loro amici. L’Europa, l’America sembrano promettere molto, quando le immagini da qui, ma poi cosa troverà lì davvero, chi parte esattamente non lo sa. Magari solo porte chiuse e la strada». Il quartiere di Ankawa di Erbil, quartiere cristiano, tra giugno e agosto dell’anno scorso è passato da 40.000 abitanti a 80-90.000 abitanti, cioè la popolazione è più che raddoppiata per l’arrivo degli IDPs. E il Kurdistan in generale si sta predisponendo ad accogliere le nuove migliaia di sfollati che potrà provocare l’offensiva militare contro Mosul, annunciata per la primavera inoltrata. Si stanno imbastendo nuovi piani di aiuti, così come in questi giorni l’anniversario dell’inizio della guerra in Siria (oltre duecentomila morti e dieci milioni di profughi) sta riportando in pagina come degni di nota i numeri allarmanti dei milioni di esuli. Ma perché questa nuova attenzione non si limiti a provocare allarmismi e indignazione, ma muova al cambiamento effettivo chiesto anche dal vescovo di Erbil, forse si può partire dal restituire a queste “masse informi di profughi” il profilo delle singole persone che le costituiscono, con le loro vicende uniche e originali. Come quella di Foco. Su Facebook si possono seguire le sue tracce: alla fine il visto è arrivato ed è partito per Lione con la famiglia. La foto pubblicata nel social network di lui con i suoi e le poche valige all’aeroporto internazionale di Erbil dice, in un istante, quello che report dettagliati di agenzie internazionali non sempre riescono a raccontare. Il distacco obbligato, l’addio, il decollo. E l’atterraggio in una nuova vita. Un’ennesima ripartenza. Un altro suo post, di qualche tempo dopo, sempre su Facebook, ci rassicura: ha ricominciato ad andare a scuola a Lione.