Una lenta conversione che affonda le sue radici nel socialismo della sua giovinezzaPasqua 1928: Giuseppe Ungaretti – il grande poeta da tutti conosciuto per le sue poesie scritte sul fronte durante la prima guerra mondiale -, dopo un periodo trascorso a Subiaco, approda “definitivamente” alla fede cattolica. Suggella la sua conversione con una poesia, La pietà, che inizia con un'ammissione, “Sono un uomo ferito”, e continua con versi di questo tenore: “Non ne posso più di stare murato/nel desiderio senza amore/…Fulmina le mie povere emozioni/liberami dall'inquietudine. Sono stanco di urlare senza voce…”
La conversione di Ungaretti non giunge all'improvviso. Da giovane, come quasi tutti gli uomini di cultura italiani, si innamora del socialismo. Sono gli anni in cui la religione è sostituita dalla politica. La politica è vista come la strada verso la salvezza; è l'azione vera; è la via e la vita. Lo pensano Ungaretti, Mussolini, Battisti, Marinetti e tanti altri.
Pagheremo questa illusione con la prima guerra mondiale e con i suoi figli: comunismo, nazionalsocialismo e fascismo. Cioè con le religioni atee della politica. Con l'uomo faber salutis suae; con il sogno di edificare il paradiso in terra. Sogno che genererà l'inferno dei gulag comunisti, dei lager nazisti e la seconda guerra mondiale.
Ungaretti è pienamente figlio di questo tempo. Uno dei tanti socialisti o nazionalisti o nazional-socialisti ante litteram che si gettano con entusiasmo nella prima guerra mondiale, in quell'inutile carneficina che inaugurerà la graduale autodistruzione dell'Europa. Questa guerra, pensa Ungaretti, porrà fine a tutte le guerre. Incendierà il mondo vecchio, per creare il mondo nuovo.
Ma non esiste solo l'utopia; ci sono anche i fatti. Al fronte, sulle montagne del Carso, sull'Isonzo, Ungaretti depone l'ideologia, perché tocca con mano la realtà: l'odio, la morte, la distruzione, la carne dilaniata dei compagni uccisi; ma anche la speranza, l'attaccamento alla vita, il rapporto di solidarietà tra i commilitoni, e il senso di Dio.
Qui, infatti, nel dolore e nella durezza di ogni giorno, Dio riaffiora. Nasce così una poesia poco studiata, benché contenuta nella celebre raccolta “L'Allegria”. E' del 1916, e si intitola Dannazione. Sono pochi, bellissimi versi: “Chiuso tra cose mortali / (anche il cielo stellato finirà) / perché bramo Dio?”.
Il sentimento religioso è già tutto qui: ogni cosa muore, persino “i cieli, passeranno”; eppure nell'uomo, e solo in lui, vi è il desiderio di Dio. Un desiderio che non può rimanere “murato”, e che non può neppure essere saziato da cose, ideologie, illusioni mortali.
L'uomo desidera nulla di meno di Dio, del Bene, della Verità. Desidera nulla di meno dell'Amore. E questo desiderio, potremmo chiosare, balzando dalla poesia alla filosofia, trascende la nostra carne: non viene dai nostri atomi, né dal nostro intestino. Sgorga dalla nostra anima immortale.
In una nota a Sentimento del tempo, Ungaretti scrive: “La sensazione dell'assenza radicale dell'essere è forse, in realtà, sensazione dell'assenza divina? Solo Dio può sopprimere il vuoto, essendo, Egli, l'Essere, essendo, Egli, la Plenitudine? E' il sentimento dell'assenza di Dio in noi, rappresentato non simbolicamente, rappresentato, in realtà, da quell'orrore del vuoto, da quella vertigine, da quel terrore? Michelangelo e alcuni uomini dalla fine del '400 sino al '700 avevano, in Italia, quel sentimento, il sentimento dell'orrore del vuoto, cioè dell'orrore di un mondo privo di Dio”.
Nel 1931, già convertito, Ungaretti scrive un'altra poesia intitolata, come quella del 1916, Dannazione, ma molto più lunga. Sono riflessioni dell'uomo di fede che vacilla, che sente di poter perdere il tesoro trovato, e che nel contempo ha una consapevolezza ormai incancellabile del suo valore: “Quest'anima / che sa le vanità del cuore / e perfide ne sa le tentazioni / e del mondo conosce la misura / e i piani della nostra mente giudica tracotanza, / perché non può soffrire / se non rapimenti terreni? / Tu non mi guardi più, Signore… / E non cerco se non oblio / nella cecità della carne”.
La carne: cioè gli inganni del mondo, le tentazioni che distolgono l'uomo dal vero oggetto del suo desiderio, che lo accecano; ma anche la realtà, il dolore, la gioia vera sperimentata nella vita concreta. Così, in Pietà, il poeta, memore del detto cristiano “caro cardo salutis est” (la carne è il cardine della salvezza), innalza una preghiera: “Purificazione amore / fa ancora che sia scala di riscatto / la carne ingannatrice”.
In generale, per Ungaretti, la Passione precede la Pasqua. E l'uomo che sa vedere oltre la sconfitta, il dolore, la morte, comprende che quello di Cristo è “un amore non vano”; capisce che Cristo è sempre accanto all'uomo, anche là dove il suo nome viene apertamente rinnegato e combattuto.
Lo ribadirà anche nel pieno della seconda guerra mondiale (1944), in Mio fiume anche tu, avendo come sfondo un'altra guerra, l'occupazione di Roma, gli stermini: “…Vedo ora nella notte triste, imparo, / So che l'inferno s'apre sulla terra / Su misura di quanto / L'uomo si sottrae, folle, / Alla purezza della Tua passione…/ Cristo, pensoso palpito, / Astro incarnato nell'umane tenebre, /Fratello che t'immoli / Perennemente per riedificare / Umanamente l'uomo, / Santo, Santo che soffri, / Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli, / Santo, Santo che soffri / Per liberare dalla morte i morti / E sorreggere noi infelici vivi, / D'un pianto solo mio non piango più, / Ecco, Ti chiamo, Santo, / Santo, Santo che soffri”.