Nei Vangeli essi rappresentano una strada delicata e sottile attraverso la quale passa il mostrarsi stesso di CristoLa bellezza e l'inganno
Senza travestimenti né nascondigli: nudi in mezzo al deserto. Spogliàti di tutto – “Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!” (Esodo 3,5) – per riparare quell'unica bellezza che conta nei Vangeli: essere pienamente se stessi. Il contrario della bellezza non è la bruttezza, nemmeno la perversione. Nella Scrittura la bellezza guerreggia con l'unica sua rivale accreditata: la cosmesi. Dal cui albero generalogico discendono i cosmetici: le sostanze cosmetiche, i trattamenti cosmetici, i prodotti cosmetici. La bellezza è la traccia di Dio: quando appare, più che lasciarsi vedere, si lascia percepire, gustare, rievocare, confidare. La cosmesi, che letteralmente significa “inganno”, è la lingua ufficiale di Lucifero, il Mentitore, quello che promette molto meno, ma con più facilità. Il Diavolo, che ama separare, sconnettere, allontanare. Fino a far disseccare la creatura: l'inganno, smascherato, lascia come unica dote la povertà. Quella che non è amore dell'essenziale, ma umiliazione nell'essersi sentiti abbindolati. Miseria, per l'appunto.
La bellezza è fascinosa: seduce, conquista, strega. E' un concetto ma anche una presenza, uno spazio ma anche un incontro, un tocco ma anche un rintocco. Un viaggio ma anche un pellegrinaggio: a percorrerlo da soli, il rischio è di confondere la bellezza con l'inganno. E fare il gioco del Demonio: imbrogliare per stordire è dalla Genesi la sua specialità. A motivo della quale la sentenza di morte è già stata emanata: “Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! […] Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno” (Genesi 3,14-15). Mica mollerà facilmente la presa. La Bellezza non teme l'inganno, però lo guarda nel volto, ne accerchia i movimenti, lo imbriglia nella verità. Lo sfida nell'unico spazio dove gli inganni hanno vita breve: nella baldanzosa solitudine del deserto. Che non è solo la mancanza di ciò che serve all'uomo per vivere, ma anche l'esatto suo opposto: l'incontro con ciò che, da solo, può saziare la sua fame e la sua sete. Con il Dio delle sorprese: “Dio è come una sorpresa e, dunque, non si sa mai dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i luoghi e i tempi di quell'incontro (Evangelii gaudium). Un Dio inedito e inaudito. Un Dio dei giardini e dei deserti.
Di giardino in giardino. Attraverso il deserto
In principio ci fu quello del Paradiso terrestre: il giardino nel quale Adamo ed Eva, seppur nudi, “non provavano vergogna” (Genesi 2,25). Nel giorno finale apparirà l'altro giardino, quello della Gerusalemme celeste (Apocalisse 22). Tra i due, staziona la domanda che accese ogni altra domanda: “Dove sei?” (Genesi 3,9). E' l'inizio di una ricerca che non avrà più fine tra le strade di quaggiù. Il primo giardino racconta di un sospetto, diabolico per l'appunto: che il Dio della creazione e delle soprese sia un Dio inaffidabile. L'altro giardino pennellerà l'esatto suo opposto: la confidenza con il Dio affidabile. Due modi di stare con Lui: dal nascondersi “dalla presenza del Signore Dio” (Genesi 3,8) al gridare: “Vieni!”, cogliendo la sua risposta: “Sì, vengo presto” (Apocalisse 22,16-21). Un Dio rimasto fedele al soprannome che si era scelto: Emmanuele, il Dio con noi.
Tra i due giardini spaziano i deserti: sembra quasi che nella Scrittura ogni giardino necessiti di un deserto che ne faccia da precursore. Anche all'inizio fu così: dal deserto del nulla Dio estrasse l'inaudito della bellezza. Del tutto che “appaga il desiderio di quelli che lo temono, ascolta il loro grido e li salva” (Salmo 145,19). Seduto attorno alle pentole piene di cipolle dell'Egitto, Israele era poco più che un'orda di straccioni e di beduini: posti e disposti a mercanteggiare la sicurezza della schiavitù col rischio della libertà. Ci vollero quarant'anni di deserto – tradimenti, fraintendimenti, intendimenti – per fare di quegli uomini un popolo vestito a festa, l'immagine stessa dell'Alleanza. Del giardino che sboccia nella terra dove prima c'era il deserto.
L'Alleanza è un giardino, la solitudine è un deserto: “La spoglierò tutta nuda e la renderò simile a quando nacque, e la ridurrò a un deserto, come una terra arida, e la farò morire di sete” (Osea 2,5). La promessa è un attrezzo per giardinieri, perciò “io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (2,16). Il deserto come lo spazio e il tempo dell'innamoramento: del perdersi per ritrovarsi, dell'assenza come una forma di presenza ancor più decisa.
La Quaresima: il deserto dove l'acqua abbonda
Il deserto e l'acqua mal s'abbinano: “Desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz'acqua” (Salmo 63,2). Eppure nel deserto il desiderio dell'acqua è stordente. Nella Scrittura il deserto ha un'età: quaranta. Che poi siano anni, stagioni, mesi o giorni nulla importa: rimane una possibilità e la sua durata è il tempo e lo spazio di una possibile esperienza. Sempre fallibile, sempre a portata di mano. Un'occasione da vivere assieme a un popolo come il condottiero Mosè, oppure in rappresentanza di altri come Elia il profeta; magari anche come anticipo di tutti gli altri come accaduto a Gesù di Nazaret. Qualunque sia la funzione, il deserto non cambia: rimane spazio da attraversare e non da aggirare. Come lo sarà del Golgota: una cima per la geografia, un deserto per l'anima, un mistero per la fede. Quella che lascia molto di aperto: la fede convinta non chiude, ma apre. S'interroga.
La Quaresima è un deserto di giorni: quaranta, per l'esattezza. Un deserto d'acqua – quindi strano, imbarazzante, curioso – che invece d'aprirsi su orizzonti di sabbia si spalanca su orizzonti di carne: il suo spazio è il corpo umano. S'inizia di mercoledì, in piena zona feriale: c'è un pugno di cenere a lambire i pensieri. Ci s'arresterà, dopo quaranta giorni, di giovedì: quella sera apparirà un catino d'acqua in prossimità dei piedi.
Giovedì è ancora ferialità, ma a un passo dalla festa. Che stavolta sarà di tre giorni: tre giorni (il giovedì, il venerdì e il sabato santo) che in realtà sono un tutt'uno. Come la Trinità: Tre però Uno. Nel deserto fare i conti – e poi, farli quadrare – sempre il mistero per eccellenza: inafferrabile, indicibile, ardito. La cenere in testa e l'acqua sui piedi. L'acqua e la cenere: gli strumenti che mia nonna era solita usare per fare bucato. La nonna e anche i Vanglei: oppure i Vangeli e anche la nonna. Da qualunque parte lo si guardi, questo strano miscuglio è a favore della bellezza. Il pesce – la cui immagine i cristiani un giorno sceglieranno come segno di riconoscimento nel segreto delle catacombe e dei massacri – conosce le logiche dell'acqua: quando marcisce inizia dalla testa. Anche l'uomo, quando marcisce, inizia da là: forse per questo il bucato nel deserto parte sempre dalla testa. Per poi giungere ai piedi, dopo quaranta giorni di lavaggi e di risciacqui: incontrare il risorto sarà una questione di sguardo. Di preparazione, di passi e di appostamenti: di un'umanità sveglia perché risvegliata. Risvegliata perché toccata.
I tocchi e i rintocchi, il tatto e il contatto
Più che convincere, Cristo preferì toccare: la sua prossimità altro non fu che il tocco spensierato e confidente di un Amore che, nascosto nelle vesti di un Amante, fece assaporare il gusto d'essere Amato. I cosmetici toccano e l'uomo ne patisce sul corpo la magia: certi volti sono rovinati dalla cosmesi, e questa è la più tagliente delle diagnosi. La bellezza, dal canto suo, più che toccare t'ammalia: ne subisci impercettibilmente il fascino. La sua prigionia è addirittura un augurio: “Accénde lumen sensibus” è l'invocazione riservata allo Spirito Santo. Sii luce, falli diventare luce i sensi. I sensi, per l'appunto. E non poteva essere altrimenti con un Dio che al linguaggio romantico degli scribi e dei farisei preferì il dialetto scarno e paesano di pescatori poco avvezzi ai grandi discorsi, ma esperti conoscitori delle percezioni, delle impressioni e dei presagi. Solitamente sono cinque: la vista, l'udito, l'olfatto, il gusto e il tatto. A sommarli tra di loro risulta la totalità dell'uomo.
La vista, il senso dei sensi: “Vide e credette” (Giovanni 20,8). La vista è il racconto della nostra storia. Con lo sguardo si vive e si muore, ci s'innamora e si dispera. Lo sguardo non tadisce. L'udito è possibilità di relazione, di azione, di reazione. E' sentire dei suoni che svegliano la memoria, è sentire ma anche ascoltare: “Subito un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola” (cfr Marco 14,72). E' possibilità di differenze: di ritmo, di frequenza, di melodia. Di timbri e di musica. L'olfatto è legato all'odore e al sapore: “Mi ha detto tutto quello che ho fatto” (Giovanni 4,39). Quindi alla memoria, al ricordo, all'identità. E' la mappa della nostra storia: ogni viaggio chiede una mappa per non perdersi. Il gusto: “Prendete, mangiate: questo è il mio corpo” (Matteo 26,26). E' l'acquolina in bocca, l'arrosto della domenica, il sapore di Cristo. Il tatto: il senso più bistrattato nell'era del web e degli abbracci virtuali. Il tatto della creazione: il senso che accese la storia. Il tatto dell'Incarnazione: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Giovanni 1,14): il tatto che divenne contatto. Fino a fondersi nell'amicizia.
Dalla testa ai piedi, attraverso i cinque sensi. Per purificarli, rinfrescarli, risvegliarli. Predisporli all'incontro con un Dio la cui stravaganza divenne il tratto più tipico: mostrare, senza camuffamenti, la sua spiccata sensibilità d'uomo. Accendendo i sensi dell'umano fino a esporre il suo sogno – che in nessuna casa manchi la festa del cuore – al libero gioco della libertà. D'altronde non si è uomini senza possibilità di scelta. “I sogni nel cassetto”: mai espressione fu più passibile di critiche dall'Uomo dei Vangeli. Convinto com'era che i sogni, a lasciarli nel cassetto, fanno puntualmente la muffa. Per farli germogliare i sogni chiedono aria, spazio, tempo. Desiderano diventare in anticipo parte di quella storia che un giorno saranno chiamati a ringiovanire. La Quaresima è il tempo dei sogni, anche se tutto lascerebbe pensare all'opposto. Eppure un giardino non nasce giardino, è un deserto al quale sono stati accreditati fiducia, tempi e attenzione. Arature e fresature, seminagioni e annaffiamenti. E poi potature, innesti, impollinazioni. La si attribuisce a san Giovanni XXIII – il Papa che condusse la Chiesa in Concilio – la frase che immagina il cristiano come un giardiniere: “Non siamo al mondo per custodire un museo, ma per coltivare un giardino”. Il giardino dei sensi: l'ottundimento dei sensi è la spavalderia del Demonio. L'accensione dei sensi è il trastullo di Dio: per una maggiore bellezza dell'umano.
Il deserto. E nel deserto giardini e strade: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa” (Isaia 43,19). Che poi sono strade da intravedere prima che da imboccare, presenza da desiderare prima che d'abbracciare, storia da immaginare prima che da scrivere. Sono sensi umani che divengono sensi di marcia: per non smarrirsi nel trambusto della ferialità. Ciò che ci tocca lascia in noi il segno: anche le ferite sono segni di un tocco. La fede stessa, per mostrarsi credibile, s'aggrappa alla potenza dei sensi: “Quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita […] noi lo annunciamo anche a voi” (1Giovanni 1,1-3).
Dai fondali del mare di Lampedusa, chi s'inabissa rimanda l'eco dell'inaudito: scheletri abbracciati tra di loro. Stretti per vincere la paura della morte: in punto di morte l'umano estrae le sue carte migliori. Dai fondali del Vangelo chi s'affaccia narra di un Dio fattosi Parola: da ascoltare. Di un Dio fattosi Pane: da gustare. Di un Dio fattosi uomo: da vedere e toccare. Di un Dio trasfigurato: per essere ricordato sempre presente. Guarire i sensi è far sporgere gli uomini negli orizzonti di Dio.
La Quaresima non è la Pasqua. Eppure non c'è Pasqua senza Quaresima. Come, d'altro canto, non c'è Quaresima senza Pasqua.
E' la legge che anche l'Amore scelse come unica condizione: il desiderio come preludio della conoscenza. Agostino d'Ippona nei Trattati sulla prima lettera di Giovanni parla del desiderio tratteggiando la metafora del recipiente da riempire: “Se tu devi riepmpire un recipiente e sai che sarà molto abbondante quanto ti verrà dato, cerchi di aumentare la capacità del sacco, dell'otre o di qualsiasi altro contenitore adottato. Ampliandolo lo rendi più capace. Facendoci attendere, [Dio] intensifica il nostro desiderio, col desiderio dilata l'animo e, dilatandolo, lo rende più capace”. La Quaresima come una “ginnastica del desiderio” che sarà tanto più faticosa quanto più necessario si rivelerà il bisogno di purificazione. Di risveglio dei sensi.
D'altronde “supponi che Dio voglia riempirti di miele. Se sei pieno di aceto, dove metterai il miele? Bisogna liberare il vaso da quello che conteneva, anzi occorre pulirlo”. Vivere la Quaresima è armeggiare con questo recipiente: si può guardare senza vedere. Come si può sentire senza ascoltare; e assaggiare senza gustare. Si può toccare anche solo la superificie delle cose: la superficie di Dio. Nei Vangeli i cinque sensi non sono simboli: sono veri e propri accadimenti, straordinarie e soprendenti occasioni d'incontro tra Dio e l'uomo.
A guardarli non cambia nulla, ad aggirarli si perde un'occasione; ad attraversarli c'è il rischio d'imbbattersi nella Rivelazione stessa di Dio. Di quel Dio che, giusto per rimanere fedele a se stesso, nulla rinnegò di ciò che è più tipico all'uomo dei suoi stessi sensi.
La Quaresima è un numero esatto: quaranta. Spettava a Dio dettare i tempi e i luoghi di quest'incontro. Il resto – anni, stagioni, mesi giorni o quant'altro – non spetta più a Dio deciderlo: sarà affare dell'uomo che, colto di sorpresa, deciderà da sé da che parte stare. Anche contro di Lui: non c'è gioia dove scarseggia la libertà.
Tra la bellezza e l'inganno giace solo un pugno di cenere e una brocca d'acqua. A disposizione dei sensi.