Le persecuzioni dei cristiani nel mondo non trovano spazio tra i diritti violati
La presentazione del Rapporto annuale di Amnesty International è sempre un’occasione importante di confronto sulla tematica decisiva dei diritti umani. Giustamente il 2014 viene definito “anno catastrofico” e il documento ha il pregio di indicare tutte le aree di crisi, anche con l’attenzione doverosa ai particolari. Ad Amnesty, ad esempio, non piace utilizzare l’acronimo giornalisticamente invalso come Isis, per definire il califfato islamico di Al Baghdadi. Nel rapporto si usa l’espressione “politicamente corretta” di Daesh, per tenere fuori la colorazione religiosa dalla questione.
Di fatto ad Amnesty International non piace notare che c’è una colossale questione religiosa e c’è una sola fede i cui seguaci sono perseguitati talvolta fino alla morte su un territorio vastissimo che va dal Pakistan all’Afghanistan, dalla Cina all’Arabia Saudita, dall’Egitto fino alla Nigeria senza parlare di Siria e Iraq: è il cristianesimo. Anche nei giorni in cui migliaia di cristiani sono costretti a fuggire dalle loro case in Siria per il solo fatto di essere cristiani e centinaia, anche bambini, vengono rapiti, niente: ad Amnesty non viene in mente che la questione dei diritti umani passa attraverso il diritto dei cristiani, calpestati e derisi, incarcerati e torturati, a migliaia uccisi. Solo perché cristiani.
E’ un rapporto monco se non chiede la libertà religiosa e si rifugia nel politicamente corretto per non infastidire l’Islam chiamando l’Isis per quel che è: Islamic State of Iraq and Syria.