I drammatici fatti di questi ultimi mesi impongono una riflessione sulla violenza motivata dalla religionePer sgombrare subito il campo da inutili e falsi complessi di colpa, è bene osservare che la componente religiosa non ha avuto nel secolo scorso quel ruolo preponderante che una certa lettura ideologica si ostina a darle. Né la prima guerra mondiale, di cui ricorre il centenario, né la seconda o la guerra fredda hanno avuto origine religiosa e i peggiori totalitarismi del secolo scorso sono stati programmaticamente atei. È dunque profondamente ingiusto attribuire alle religioni, termine del resto troppo generico, la responsabilità di ogni esplosione di violenza, opponendo loro la sana e pacifica razionalità della pretesa ragione laica1. Neppure si può scindere arbitrariamente in due la categoria del religioso, istituendo un legame strutturale tra monoteismo e violenza, da contrapporre a un tollerante politeismo dei valori.
Tuttavia, la cronaca di questi mesi ricorda con dolorosa evidenza quanto anche le motivazioni religiose possano diventare fattori di violenza. La tesi tante volte ripetuta per cui le religioni sarebbero sempre fonti di pace e la responsabilità della loro trasformazione in fattori di guerra ricadrebbe immancabilmente sui politici o sul capitale finisce per non reggere fino in fondo, pur contenendo ovvi elementi di verità. Piuttosto si deve parlare di un continuo intreccio, in cui risulta difficile capire chi strumentalizza chi, tra politici che si ammantano di simboli religiosi in cui non credono e uomini di fede che cercano di servirsi dello Stato per perseguire le proprie personali agende2.
Un inquietante inquilino del cuore umano
È probabilmente l’approccio antropologico quello più adatto ad indagare un’aggressività che si manifesta con preoccupante ciclicità e che al tempo stesso sembra affondare le proprie radici molto in profondità nel cuore umano. In questo senso, e senza assumere l’intero schema girardiano, sembra corretto rintracciare nelle religioni una tendenza originaria a contenere la violenza. Paradigmatica è la funzione del taglione nell’Antico Testamento: la vendetta è ammessa, ma dev’essere mantenuta entro limiti stabiliti, come insegna in modo non banale il tanto vituperato principio dell’“occhio per occhio”. Ma controllare la violenza non significa annullarla. Così le culture antiche mantengono una profonda ambiguità nei confronti della violenza, da cui non va esente neppure l’esperienza raccontata nelle pagine dell’Antico Testamento. Allo stesso tempo però riaffiora insistente il desiderio di un ultimo approdo in cui il dramma conosca una soluzione. Agli inizi dell’Antico Testamento la storia di Caino e Abele descrive certo il tragico irrompere dell’omicidio sulla terra, ma ne denuncia anche l’estraneità al disegno divino. «La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo» (Gen 4,10) dichiara Dio a Caino. La parola sangue è al plurale e questo dettaglio offrirà alla tradizione esegetica ebraica il punto di partenza per affermare che «chiunque distrugge una vita umana è come se distruggesse un mondo e viceversa chi salva una vita è come se salvasse un mondo intero»3.
«Soffrendo non minacciava vendetta»
La vicenda di Cristo appare come la sovrabbondante risposta a questa attesa che la storia religiosa dell’umanità manifesta. Essa rappresenta un oggettivo superamento della spirale della vendetta e come tale misura il passato e il futuro della storia umana («io sono venuto in questo mondo per giudicare» Gv 9,39). È la misteriosa «spada» (Mt 10,34) che il Nazareno è venuto a portare, «perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,35). Tanto è vero che l’obiezione più comune che da quel momento verrà mossa non riguarderà tanto la bontà del nuovo principio introdotto da Cristo, quanto la sua attuabilità pratica, che sarebbe smentita, prima di tutto, dalle numerose infedeltà dei cristiani stessi. Senza sottovalutare la portata di questo richiamo a una coerenza di vita, personale e comunitaria, la tradizione cristiana considera invece la non-attuabilità di questo ideale sul piano puramente umano come una testimonianza suprema (“martirio”) del divino all’opera nel mondo. Resta perciò convinta che, con la grazia di Dio, sia veramente possibile «seguire le orme» (1Pt2,21) del Crocifisso Risorto. Siamo qui davvero al cuore della fede indivisa, di quell’ «ecumenismo del martirio» di cui ha parlato Papa Francesco indicandola come «un potente richiamo a camminare lungo la strada della riconciliazione tra le Chiese»4.
Il congedo definitivo dalla logica della violenza che l’evento pasquale porta in sé è anche il principale contributo che come cristiani pensiamo di poter offrire oggi al dialogo interreligioso. È stata la grande intuizione di Assisi e il messaggio che Papa Francesco ha ripetuto di recente in Terra Santa, come pure in Albania e in Turchia, lanciando dalla spianata delle moschee «un accorato appello a tutte le persone e le comunità che si riconoscono in Abramo: rispettiamoci ed amiamoci gli uni gli altri come fratelli e sorelle! Impariamo a comprendere il dolore dell’altro! Nessuno strumentalizzi per la violenza il nome di Dio! Lavoriamo insieme per la giustizia e per la pace!»5. Una pace che non sia una semplice tregua tra contendenti in armi, che accettano un precario modus vivendi a causa dell’impossibilità fisica di sopprimersi, ma un’autentica e cordiale riconciliazione può essere solo invocata come dono di Dio ed è pertanto luogo privilegiato del dialogo tra i credenti delle diverse religioni. Nella stessa lunghezza d’onda, risuona con particolare forza il discorso che Giovanni Paolo II rivolse a Sarajevo ai rappresentanti della comunità musulmana, al termine di una guerra terribile condotta secondo linee etnico-religiose: «Tutti gli esseri umani – disse Giovanni Paolo II – sono posti da Dio sulla terra, affinché percorrano un pellegrinaggio di pace, ciascuno a partire dalla situazione in cui si trova e dalla cultura che lo riguarda»6.
Il parossismo di una crisi
Non mi sfugge quanto queste affermazioni suonino lontane dalle vicende di questi ultimi anni. Mai come oggi si è parlato tanto di pace e di dialogo e mai come oggi sono frequenti le guerre e le contrapposizioni. Come Oasis in particolare, non possiamo accettare come normale il fatto che molte società musulmane siano oggi travagliate dalla violenza, a cominciare da quanto sta avvenendo in Siria e Iraq, ma senza dimenticare altri focolai di tensione come la Nigeria, la Libia o il Pakistan (e l’elenco è lungi dall’essere esaustivo). Il fenomeno ha assunto negli ultimi anni dimensioni estremamente preoccupanti, generando un inarrestabile esodo che sta privando molti di questi Paesi delle loro migliori risorse. Oasis, che è nata per essere vicina ai cristiani orientali, non può ignorare il loro grido di dolore e quello di interi popoli, ovunque il terrorismo, e in particolare il terrorismo islamista, infierisca.
Non è forse errato rappresentarsi la crisi attuale, che ha il suo epicentro in Iraq e Siria, come una forma di parossismo, in cui diversi nodi accumulati lungo i secoli giungono al pettine. Il nostro compito è quello della denuncia del male, senza cedimenti, e delle sue collusioni, senza dimenticare mai le congiunture e le scelte politiche che hanno condotto alla crisi attuale, ma allo stesso tempo non rifuggendo dal sollevare anche le questioni più scomode che toccano il fondamento stesso della violenza religiosamente motivata. Ciascuno poi fornirà le proprie risposte. A livello pratico incombe inoltre alla comunità internazionale il dovere di proteggere gli inermi, come ha ricordato più volte il Santo Padre, perché «fermare l’aggressore ingiusto è un diritto dell’umanità, ma è anche un diritto dell’aggressore, di essere fermato per non fare del male»7. E infine, è necessario attivare ogni forma di solidarietà, morale e materiale, con le vittime e i milioni di profughi.
Lo spazio di un impegno
Se la volontà di potenza è una costante della guerra, la crescita della tecnologia immette oggi una nuova variabile nell’equazione. A rischio infatti è non più questa o quella vita, ma la vita in sé. Il pensiero va istintivamente all’irrisolta minaccia atomica, ma c’è un pericolo forse ancora maggiore: è all’opera infatti una competizione economica che si esplica nello sfruttamento selvaggio delle risorse del pianeta. Si potrebbe forse giungere a parlare provocatoriamente di una nuova guerra mondiale nel senso di una guerra lanciata contro il mondo e nella quale, ancora una volta, gli individui «si riducono a portatori di forze che li comandano a loro insaputa»8. Nel futuro perciò sarà sempre più necessario collegare il tema ecologico a quello antropologico, per superare una visione del mondo come arsenale (la parola non è scelta a caso) di risorse da usare a proprio piacimento. Oggi comprendiamo forse meglio la misteriosa parola di San Paolo sulla creazione che «geme» e «attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio» (Rom 8,19-22). Il tema della pace si apre così a una dimensione escatologica: come infatti recita il Salmo, «i giusti – e chi è il giusto se non l’uomo in pace con sé, con Dio e con i fratelli? – erediteranno la terra» (Sal 36,29). È questa l’unica parola biblica che il Corano cita letteralmente: «E già abbiam scritto nei salmi, dopo che venne il monito, che i miei servi giusti erediteranno la terra» (21,104). Mi sembra difficile pensare che una tale eccezionale convergenza sia priva di significato.
Ma tra la sofferenza per il male patito e l’attesa speranzosa della rivelazione dei giusti resta un immenso lavoro da fare, il nostro compito di uomini di buona volontà. Conserva allora la sua validità il programma che già nel 1999 formulava l’intuizione che avrebbe portato alla nascita di Oasis: «Testimoniare Dio principio di pace fonte di un pensiero e di una azione di pace: ecco il varco per superare l’alternativa secolarismo/ideologia-utopia»9. Tale testimonianza però – non possiamo non compiere quest’ultimo passo – richiede una disposizione, il coraggio del perdono. Lo ha ricordato Giovanni Paolo II in un altro suo straordinario discorso tenuto a Sarajevo. Dopo aver raccomandato un dialogo costruito sulla «assenza di discriminazioni», «il lavoro per tutti» e «il ritorno dei profughi», questo grande Santo del Novecento aggiungeva:
I destini della pace, pur essendo in gran parte affidati alle formule istituzionali, che vanno efficacemente disegnate nel dialogo sincero e nel rispetto della giustizia, dipendono in misura non meno decisiva da una rinnovata solidarietà degli animi. È questa interiore disposizione che si deve coltivare sia entro i confini della Bosnia ed Erzegovina che nei rapporti con gli Stati limitrofi e con la Comunità delle Nazioni. Ma una disposizione del genere non può affermarsi se non sulla base del perdono. Per essere stabile, sullo sfondo di tanto sangue e tanto odio, l’edificio della pace dovrà poggiare sul coraggio del perdono. Occorre saper chiedere perdono e perdonare!10
Davvero non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono11. Non dovremmo mai dimenticare questa ultima verità, nel nostro umile tentativo di costruire l’edificio della pace.
NOTE:
1 Su questa «ingiusta critica secolarista alla religione» cfr. il nostro Dio tra guerra e pace, «Nuntium» 8 (1999), 10-18.
2 Lucidamente Benedetto XVI osservava, nella commemorazione del venticinquesimo di Assisi: «Ma da dove sapete quale sia la vera natura della religione? La vostra pretesa non deriva forse dal fatto che tra voi la forza della religione si è spenta? Ed altri obietteranno: ma esiste veramente una natura comune della religione, che si esprime in tutte le religioni ed è pertanto valida per tutte? Queste domande le dobbiamo affrontare se vogliamo contrastare in modo realistico e credibile il ricorso alla violenza per motivi religiosi. Qui si colloca un compito fondamentale del dialogo interreligioso» (Benedetto XVI, Giornata di Riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo, Assisi, 27 ottobre 2011).
3Cfr. Abot de Rabbi Natan, XXXI, 1, cit. in Emiliano Jiménez Hernandez, Le ali della Torah. Commenti rabbinici al Decalogo, Napoli, Chirico 2010, 144. Il detto viene citato con approvazione anche in Corano 5,32, al termine della «storia dei due figli di Adamo», come una prescrizione divina rivelata ai Figli d’Israele. Si può ancora osservare come nel testo biblico Dio imponga su Caino un segno (Gen 4,15) per arrestare sul nascere il ciclo infernale della vendetta. In questo modo Egli riserva a Sé la soluzione del dramma della violenza che la rivalità tra i due fratelli ha immesso nel mondo.
4Francesco, Incontro con il Catholicos Karekin II, 5 agosto 2014.
5Francesco, Visita al Gran Mufti di Gerusalemme, 26 aprile 2014.
6Giovanni Paolo II, Viaggio apostolico a Sarajevo, 12-13 aprile 1997, Discorso ai rappresentanti della comunità islamica, 13 aprile 1997.
7Francesco, Conferenza stampa durante il volo di ritorno dalla Corea, 18 agosto 2014.
8Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 19902, 20.
9Cfr. Angelo Scola, Dio tra guerra e pace, 18.
10Giovanni Paolo II, Viaggio apostolico a Sarajevo, 12-13 aprile 1997, Discorso ai membri della presidenza della Bosnia ed Herzegovina, 13 aprile 1997, n. 4.
11Id., Messaggio per la XXXV giornata mondiale della pace, 1° gennaio 2002.
Questo articolo è un'anticipazione del numero 20 di Oasis. La rivista è disponibile in pdf, su iTunes, suAmazon, sul sito di Marcianum Press.