La legalizzazione della cannabis apre nuovi scenari di criminalità e dipendenza diffusadi Luigi Santambrogio
Digitate su Google il nome di Evan Cox e avrete un’idea di quella che diventerà l’Italia se qualche governo prossimo venturo decidesse di prendere sul serio le panzane di Roberto Saviano, Umberto Veronesi e i radicali sulle meraviglie della libera cannabis. Evan è un giovane di Seattle poco più che trentenne, grandi baffoni alla Dennis Hopper in Easy Rider e un look da beatnik sopravvissuto. Il severo Economist lo raffigura a bordo di una rombante Harley Davidson mentre consegna una montagna di marijuana a domicilio.
Già, la storia di Cox rappresenta al meglio il sogno del self-made man, anchese la sua impresa è piuttosto particolare e poco raccomandabile. Dopo aver consegnato per mesi pizze a domicilio il tipo ha deciso di cambiare genere: oggi trasporta bustine di erba, pacchi di dolcetti, torte e barrette di cioccolato alla marijuana. In pronta consegna porta a porta. «Una cosa facile facile», ha raccontato Cox all’Economist, «anche più della consegna della pizza visto che la marijuana non dev’essere tenuta in caldo e non va nemmeno a male». Dopo la liberalizzazione della cannabis, imprese così si sono moltiplicate negli Stati di Washington e del Colorado, diventati le nuova Silycon Valley delle startup dello sballo.
Business redditizio, se si considera che Winterlife, la società fondata da Cox, è una struttura specializzata con un sito web dove i clienti possono comodamente consultare prodotti e prezzi, scegliere tra decine di diverse combinazioni e qualità di cannabis in vendita. Cinquanta dipendenti e un fatturato mensile di 1 milioni di dollari, spingono sempre più giovani a seguirne l’esempio. Fattorini che portano droga a domicilio sono attivi anche in Colorado, ma pure a New York, anche se con qualche libertà in meno. Una confezione da 2,5 grammi costa 50 dollari. In una giornata, ne consegnano fino a 70 dosi. Dopo Washington e Colorado altri Stati come Oregon, Alaska, Florida e Washington D.C si apprestano a liberalizzare la cannabis, facendo così schizzare il business al valore record previsto di 6 miliardi dollari entro il 2018. In Colorado, negli ultimi mesi, sono stati autorizzati 200 provider al dettaglio, mentre il settore nel suo complesso garantisce lavoro a oltre 11 mila addetti.
In Borsa, invece, sono al momento 80 le società quotate che gravitano interamente intorno al settore. Come il fondo Privateer Holdings guidato da Peter Thiel, il miliardario co-fondatore di PayPal ha investito milioni di dollari nel mercato della cannabis e possiede il database sulla marijuana Leafly e il brand di cannabis Marley Natural: un nome che è garanzia di qualità. E poi c’è l’indotto: decine di società che vendono speciali sistemi d’irrigazione, illuminazione, fertilizzazione; aziende di software che sviluppano applicazioni per facilitare la gestione; studi legali, agenzie di viaggio, società portavalori che assicurano il trasporto e la custodia di grosse somme in contanti. Essendo la cannabis una droga, le leggi federali vietano a chi la commercia di spostare capitali utilizzando carte di credito o conti bancari. Le operazioni di trasporto del denaro obbligano così questi commercianti a girare con valigette piene di dollari, a comprare mezzi blindati e assumere guardie armate.
Quello delle banche è un problema perché, come ha scritto la rivista Time, senza i loro servizi «molte delle ragioni più appetitose della legalizzazione della droga evaporeranno. I fornitori di droga hanno accettato tasse alte e gravosi regolamenti in cambio però di una legittimazione politica». Per tale motivo, molti di loro impegano parte dei guadagni per fare lobby sui politici. In una sua recente inchiesta, il settimanale Tempi riportava le dichiarazioni di Patrick McManamon, capo di Cannasure Insurance Services, società del Colorado che vende assicurazioni ai coltivatori di marijuana: «Stiamo sviluppando un’industria dal niente, ma se non diamo un contributo politicamente e non raggiungiamo i candidati con cospicue donazioni non riusciremo a influenzare i futuri avvenimenti».
E Tripp Keber, capo della Dixie Elixirs & Edibles, che realizza tisane e cibi a base di marijuana, rivela che «quello che stiamo facendo è prendere quei profitti e investirli politicamente. Non passa neanche una settimana senza che facciamo donazioni politiche». Nell’Oregon la campagna per il sì ha ricevuto 2,3 milioni di dollari, 6 milioni quella in Florida e 850 mila dollari quella in Alaska. Solo la delegazione del Colorado al Congresso ha già ricevuto 20mila dollari quest’anno. Chi spende di più, però, è il Marijuana Policy Project, che quest’anno donerà 150 mila dollari ai candidati federali disposti ad allentare le norme sul consumo di marijuana. Soldi, regolarmente dichiarati e denunciati.
Dunque, poco importa che l'ultimo rapporto della Nazioni Unite sulle droghe abbia evidenziato che la legalizzazione aumenta la tossicodipendenza e non il contrario. O che il numero di bambini ricoverati in ospedale con le allucinazioni dopo essere entrati in contatto con la cannabis casualmente, mangiando dolci e biscottini alla marijuana, stia aumentando troppo rapidamente. Pure la criminalità non è diminuita, smentendo quelli che affermavano il contrario. Gli spacciatori non autorizzati sono aumentati: sono meno controllabili e praticano prezzi al ribasso rispetto agli shop che vendono la droga al pubblico e deve quindi pagare le tasse. Insomma, questo è il futuro della legalizzazione della cannabis, in attesa che anche cocaina, anfetamine, crak e altre droghe pesanti entrino pure loro nel big business del libero mercato.
É solo questione di tempo perché, anche a casa nostra, i liberalizzatori non fanno differenze e discriminazioni: oggi la marijuana, domani il resto. Saviano, Veronesi, i radicali e la sinistra (magari con l’aiutino della Lega di Matteo Salvini) stanno già cercando il loro Evan Cox a fare da testimonial alle piantagioni sull’Aspromonte. Imprenditoria giovanile, la chiameranno, quella che il Job Act non ha previsto. Almeno per ora.