Quel Joshua di Nazareth Messia non troppo scandaloso annunciato dai profetiNon vogliamo entrare nel merito dell’ebraicità di Gesù, un dato indiscusso e indiscutibile, fermamente riaffermato dal Concilio Vaticano II (Nostra aetate, n. 4), né intendiamo dimostrare questo legame nella concretezza del suo comportamento. Infatti, se è vero che egli stesso rivela un’originalità e un distacco netto da alcune prassi o concezioni giuridiche, è però altrettanto vero che in molti altri comportamenti si manifesta in continuità con le tradizioni ebraiche. Noi ora vorremmo solo toccare un tema per certi versi sorprendente.
Infatti, il fascino esercitato dal cristianesimo in qualche settore dell’ebraismo ha avuto, in questi ultimi anni, un forte impulso attraverso un fenomeno poco noto, eppure già abbastanza robusto: c’è, infatti, chi parla di quasi mezzo milione di adepti in tutto il mondo, dei quali quindicimila in Israele, con un’ottantina di comunità, soprattutto in Galilea. Ci riferiamo ai cosiddetti “ebrei messianici”, da non confondere con i giudeo-cristiani, che sono invece cristiani a titolo pieno, pur avendo origini ebraiche e adottando nella loro liturgia la lingua ebraica. I “messianici”, al contrario, non si considerano cristiani, anche perché non accettano la divinità di Gesù Cristo.
Tuttavia, essi riconoscono in Joshua di Nazareth il Messia annunciato dai profeti, il messaggero ultimo della Parola di Dio, l’oggetto delle speranze spirituali dell’Israele di Dio. Per loro il vangelo altro non è che la continuità della rivelazione biblica fatta a Israele ed è all’interno di quell’alveo che si colloca e si spiega, impedendo così ogni concezione cristiana specifica; questa viene considerata come una degenerazione influenzata dal paganesimo, che l’ha indotta ad applicare al Messia Gesù le qualifiche divine del culto imperiale. Anzi, per alcuni teorici di questo movimento messianico la svolta fu consumata nel Concilio di Nicea (325), allorché si definì in modo netto la divinità di Cristo e si abbandonarono riti e osservanze ebraiche, che fino a quel momento erano patrimonio anche della Chiesa.
Ora, nei primi secoli cristiani, la forte presenza di Paolo e delle sue comunità di matrice gentile, idealmente orientate già verso lo “spirito di Nicea”, non riuscì a impedire che esistesse una solida base giudaico-messianica, analoga a quella cui si riferiscono questi “ebrei per Gesù”. Effettivamente, un giudeo-cristianesimo tendente a un’autonomia rispetto al cristianesimo emergente, diffuso ormai nell’impero romano, è stato documentato fino al IV secolo, anche a livello archeologico, soprattutto dal francescano Bellarmino Bagatti, con un’opera di grande interesse intitolata L’Eglise de la Circoncision (1965).
Gli “ebrei messianici”, in quanto tali, si presentano invece sulla scena contemporanea a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, e, a differenza dei “cristiani per Israele”, sorti negli Stati Uniti, che miscelano cristianesimo ed ebraismo, essi sono convinti di rimanere ancorati alla fede di Israele in modo stretto, costituendone quasi il naturale sviluppo verso la pienezza. La culla fu, come è accaduto per tante esperienze religiose moderne, negli Stati Uniti, con le prime comunità e sinagoghe sorte a Filadelfia e a Washington. Il simbolo distintivo da essi adottato fu costituito da un intreccio tra la menorà (candelabro a sette braccia), la stella di Davide e il pesce simbolo cristologico. La loro dichiarazione di base, accolta dal coordinamento di queste comunità denominato Unione delle Congregazioni messianiche ebraiche, suonava così: “Siamo un movimento di congregazioni e di gruppi fedeli a Joshua il Messia che assumono la responsabilità, nell’ambito dell’Antica Alleanza, di testimoniare una vita ebraica e un’identità radicata nella Torah, espressa nella tradizione dei padri, rinnovata e applicata nel contesto della Nuova Alleanza”. Quindi, fede in Gesù Messia e osservanza della Torah, ma con lo spirito indicato dai vangeli.
Non esiste una loro liturgia specifica. Le preghiere sabbatiche nelle loro sinagoghe spesso ricalcano il culto giudaico tradizionale, aggiungendovi però aspetti analoghi a quelli dei carismatici, con invocazioni a Gesù, ritmate da braccia levate. Assente è, invece, la croce, considerata come un segno troppo connotato in chiave cristiana e ritenuto ancora un emblema delle tristi persecuzioni antisemite operate alla sua ombra. E’ indubbio che un simile fenomeno spirituale non poteva non creare reazioni in ambito ebraico ufficiale, soprattutto in quello ortodosso. Si ha notizia di atti di intolleranza, segnalati anche dalla stampa e dalla televisione, destinati a essere un avvertimento minaccioso: qualche attentato contro i “messianici” e le loro sinagoghe in Israele, un rogo di libri posseduti da queste comunità, il sospetto e l’emarginazione come apostati o come missionari cristiani camuffati…
Certo è che questa tipologia religiosa riflette, a modo suo, il legame che unisce ebrei e cristiani: un vincolo che non è solo fondato sulla comune adesione alle Scritture del Primo Testamento come Parola di Dio, ma che è anche intrecciato con la figura di Gesù e con il suo messaggio. Con lui il mondo giudaico deve sempre confrontarsi – come per altro è accaduto nel secolo scorso attraverso personaggi importanti dell’ebraismo (Buber, Heschel, Klausner, Ben Chorin, Pinchas Lapide, Flusser, Fleg, ecc.) -, nella consapevolezza che, fuori da ogni velleità di proselitismo, forse l’esito può essere quello che confessava l’ebreo Franz Kafka all’amico Gustav Janouch che lo interrogava su Gesù: “Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi”.
[Tratto da Gianfranco Ravasi, “Incontrare il Maestro. Ma voi chi dite che io sia?” (Edizioni San Paolo)]