Economisti in fermento contro la riforma di Renzi. «E’ un assist alle grandi banche, il modello non funzionerà».Il mondo cattolico "frena" la riforma delle Banche Popolari. Gli economisti vicini alla Chiesa, come scrive Il Sole 24 Ore (26 gennaio) sono in fermento per esprimere tutta la loro contrarietà alla svolta annunciata in cdm dal Governo Renzi. La riforma prevede la trasformazione in Spa per quelle maggiori dimensioni: dieci avviando la trasformazione in Spa per quelle maggiori dimesioni.
E cioè: Banco Popolare, Ubi, Bper, Bpm, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Popolare di Sondrio, Creval, Popolare dell'Etruria e Popolare di Bari. Nel complesso, spiega Assopopolari sul suo sito, il sistema delle Popolari conta 70 istituti (quindi 60 sono fuori dalla riforma) con 1,34 milioni di soci e un totale di attivi da 450 miliardi (La Repubblica, 21 gennaio).
BIG BANK ALL'ORIZZONTE
In un'intervista a Radio Vaticana (24 gennaio) il consigliere della Fondazione pontificia Centesimus Annus Gianluigi Longhi, è stato esplicito: «In una riforma complessiva del sistema bancario questi istituti non è che possano essere assorbiti sempre, anche per un problema di antitrust, dalle solite nostre big bank. Dunque, possono essere soggetti a future scalate o future aggregazioni di gruppi bancari esteri che in Italia, si trovano un territorio molto favorevole».
PERICOLO DI FUGA DI NOTIZIE
Longhi denuncia, poi, il possibile acquisto di ingenti quantitativi di azioni delle Popolari nell'imminenza dell'annuncio, e afferma che «è un'anomalia del mercato perché leggendo le notizie di stampa sembrerebbe che ci sia stato un accumulo di azioni, e quindi il beneficio è sempre rivolto allo speculatore di borsa, all'azionista, che prende prima un'azione sapendo che ci sarà un cambiamento e quindi un capital gain. Bisognerebbe verificare se c'è stata piena trasparenza delle istituzioni e se in tutto questo non ci sono state le solite fughe di notizie».
SCORCIATOIA CHE NON FUNZIONA
Per l'economista Leonardo Becchetti, «ridurre il numero degli attori e aumentarne la dimensione come scorciatoia per l’efficienza. Non vogliamo crederci. Non vogliamo, cioè, credere che il presidente del Consiglio sia stato indotto a ignorare i princìpi della concorrenza, arrivando a confondere mercato e oligopoli, proprio quegli oligopoli che – come stiamo vedendo – alla fine controllano coloro che dovrebbero fare e dare regole e condizionano gli Stati» (Avvenire, 18 gennaio).
CRISI E BANCHE "GRANDI"
Al docente di Economia Politica, presso l'Università Tor Vergata di Roma, «viene da pensare che qualche voce interessata possa aver suggerito all’orecchio del premier che 'grande è bello'. Noi gli ricordiamo invece – sottolinea – che la storia finanziaria recente insegna che la crisi finanziaria globale, quella che stiamo ancora pagando, è stata causata dalle banche 'troppo grandi per fallire' e troppo complesse per essere regolate. Gli ricordiamo che sono state le grandi banche multinaziona-li, tecnicamente fallite, che hanno rischiato di trascinarci tutti nel baratro».
L'ALLARME DEL RAPPORTO LIKANEN
Becchetti invita i ministri e il premier a leggere «i passi salienti del Rapporto Liikanen, curato da esperti della Ue, dove si spiega molto bene come le grandi banche aumentano i rischi sistemici e di come le banche cooperative e popolari sono invece fondamentali per il sistema e le loro crisi sono molto meno gravi perché proprio la ridotta dimensione consente che la crisi sia assorbita endogenamente dalla stessa rete che creano».
DECRETO INCOSTITUZIONALE
Giulio Sapelli, docente di Storia economica ed Economia politica all’Università Statale di Milano, su Avvenire (24 gennaio), è ancora più duro e ipotizza addirittura l'incostituzionalità del decreto: «È grave che un governo abbia legiferato in questo modo in un momento di vacatio istituzionale. Ricorrere a un decreto legge in campo economico è da regime sudamericano, non da democrazia occidentale. Ci voleva un’ampia discussione parlamentare. Io dico che su questo decreto pende addirittura il vizio di incostituzionalità»
MODELLO UNICO BANCARIO INADATTO IN ITALIA
Suor Alessandra Smerilli, segretario del Comitato organizzatore delle Settimane Sociali, organismo Cei, è convinta che la natura delle popolari "cambierà in peggio" (Radio Vaticana, 22 gennaio). «L’idea che c’è da parte del regolatore, prima di tutto a livello europeo, e vediamo che noi come Italia stiamo semplicemente seguendo, è di un modello unico bancario, modello unico che per l’Italia non funziona. Soprattutto l’Italia ha dimostrato nella sua varietà di avere retto molto meglio la crisi e avere dato più credito rispetto ad altre nazioni. Quindi se questo è l'inizio di un processo, lo scenario non è roseo».
POPOLARI: GOVERNANCE E DEMORAZIA
Infine Pietro Cafaro sempre sulle colonne del quotidiano dei vescovi (26 gennaio) consiglia il Governo «ad analizzare concretamente il comportamento delle banche popolari cooperative: saggiarne ad esempio l’effettivo legame con il territorio (sia sul versante della raccolta che su quello dell’impiego della provvista) e l’adozione di strumenti concreti atti a valorizzarlo, l’effettiva partecipazione dei soci alla governance, la pratica costante (anche se in misura variabile) del mutualismo, la democraticità della gestione, la promozione della crescita anche culturale del territorio ove operano».
Tutti elementi, per il docente di Storia Economia presso l'Università Cattolica di Milano, «che sono alla base del cooperativismo, che ne costituiscono principi irrinunciabili e che, come tali, vanno ad ogni costo salvaguardati».