Una riforma imposta per decreto nel risiko bancario italiano. Accuse reciproche di difesa di lobby locali e cedimento alla finanza internazionale.di Carlo Cefaloni
Le avvisaglie sono partite sabato 17 gennaio e la decisione è arrivata martedì 20 dello stesso mese. Il governo Renzi ha utilizzato la decretazione d’urgenza per obbligare, entro diciotto mesi, le maggiori banche popolari (quelle con attivo superiore a 8 miliardi di euro) a trasformarsi in Società per azioni. L’operazione, secondo i critici dell’operazione, servirebbe ad esporre le banche radicate sul territorio alla finanza dei grandi fondi speculativi e, in particolare, a trovare, tramite fusioni, il modo di sanare la situazione di Monte Paschi e della Carige.
Nel comunicato stampa, invece, l’esecutivo afferma di essere mosso «dall’obiettivo di rafforzare il settore bancario e adeguarlo allo scenario europeo» per «garantire che la liquidità disponibile si trasformi in credito a famiglie e imprese» a prezzi più contenuti.
In pratica, con la riforma, queste banche perdono la forma cooperativa e diventano scalabili da chi acquista il pacchetto azionario di controllo. Attualmente, invece, il singolo socio non può possedere più dell’1 per cento del capitale e ha un solo voto in assemblea, a prescindere dal numero di quote possedute. Tale sistema di democrazia economica, secondo alcuni osservatori che plaudono alla riforma di Renzi, può avvenire nelle piccole realtà ma, quando supera una certa soglia, nasconde una forma di controllo esercitato, di fatto, da potentati locali. Così ad esempio Luigi Guiso, tra gli autori del sito economico lavoce.info. E, ancora più esplicito, Alberto Brambilla su Il Foglio che parla di un salutare scossone alla “foresta pietrificata” delle popolari. Di opposto parere lo storico dell’economia Giulio Sapelli che, intervistato da Italia Oggi, parla di “colpo di stato” che «stravolge la natura di un terzo del settore bancario nazionale, in un periodo di vuoto di potere, perché manca il presidente della Repubblica». Per Sapelli si tratta di un cedimento ai poteri forti della finanza internazionale. Da più parti arriva comunque il disorientamento per la scelta del decreto d’urgenza al posto di una discussione parlamentare aperta agli interventi della società civile. Su questo piano si colloca Leonardo Becchetti che dalle pagine di Avvenire, riprese sui social media, ha invitato ad una mobilitazione già da domenica 18 gennaio davanti ai rumors di un decreto che, nella sua versione originaria, imponeva il cambiamento di regole alla totalità delle banche popolari e di credito cooperativo.
Per l’economista dell’università di Roma 2, l’offerta del sangue fresco (raccolta di soldi, ndr) delle popolari alle grandi banche interazionali dimostra che il governo italiano dimentica che la «crisi finanziaria globale che stiamo ancora pagando è stata causata dalle banche “troppo grandi per fallire” e troppo complesse per essere regolate». Sono state «le grandi banche multinazionali, tecnicamente fallite, che hanno rischiato di trascinarci tutti nel baratro».
Forte contrarietà esprime Ugo Biggeri di Banca etica, che pur non toccato dal decreto, osserva che «le ingenti somme di denaro raccolte dagli istituti finanziari oggetto del decreto del Governo sono particolarmente appetibili per i fondi speculativi di private equity esteri che potranno entrare facilmente nelle strutture delle prossime Spa». Biggeri ci tiene a ricordare inoltre le vere riforme necessarie del sistema bancario di cui si discute dal 2008 «per impedirle di sottrarre risorse all’economia reale a vantaggio della speculazione finanziaria che arricchisce enormemente l’1 per cento ai danni del 99 per cento delle persone. Moltissime persone, studiosi e organizzazioni, tra cui Banca Etica, hanno chiesto misure quali la tassa sulle transazioni finanziarie, la separazione tra banche d’affari e banche retail, il serio contrasto ai paradisi fiscali».
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