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Camus e la profezia sull’Europa che “non vive, vegeta”

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L'Osservatore Romano - pubblicato il 04/01/15
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Le parole del grande scrittore in un convegno del 1955di Silvia Guidi

«Probabilmente è difficile trovare un’altra epoca in cui la quantità di persone umiliate è così grande»; non ha mezze misure Albert Camus nel denunciare il deficit di vita interiore dell’Europa del suo tempo, una società «borghese, individualista, che pensa alle proprie frigidità, ai suoi ristoranti (…) che non vuole vivere. Dichiara senza dubbio di voler vivere ma ha posto la vita a un livello così basso da non avere più la possibilità di proseguire nella Storia; vegeta, e nessuna società ha vegetato a lungo».

Siamo nel 1955, e lo scrittore sta partecipando a un dibattito organizzato dall’Union Culturelle gréco-française di Atene; il testo è stato tradotto in italiano e pubblicato sotto il titolo «Il futuro della civiltà europea» all’interno del libro Calendario della libertà (Bologna, Castelvecchi, 2013, pagine 122, euro 13,50) curato da Alessandro Bresolin e pubblicato in occasione del primo centenario della nascita dello scrittore. «Risponderò fuggevolmente — continua Camus rispondendo alle domande di Konstantinos Tsatsos, Georgios Theotokas, Phedon Vegleris e Euangelos Papanoutsos — dicendo che secondo me il principale nemico di una civiltà è generalmente se stessa. Se la civiltà europea è in pericolo, senz’altro lo è (…) soprattutto perché in sé non ha abbastanza salute né abbastanza forza per rispondere a questa sfida della storia. Riflessione fatta, la mia risposta non è poi così sfuggente». Le cause sono tante, ma la radice del problema è culturale, secondo Camus: sul banco degli imputati ci sono gli epigoni di Cartesio. «Potremmo chiederci, e parlo sempre al condizionale, se proprio il singolare successo della civiltà occidentale nel suo aspetto scientifico non sia in parte responsabile del singolare fallimento morale di questa civiltà. Per dirla diversamente, se, in un certo senso, la fiducia assoluta, cieca, nel potere della ragione razionalista, diciamo della ragione cartesiana per semplificare le cose, perché è lei al centro del sapere contemporaneo, non sia responsabile in una certa misura del restringimento della sensibilità umana che ha potuto, in un processo troppo lungo da spiegare, portare poco alla volta a questo degrado dell’universo personale». Un’aridità crescente, che fa sentire «il peso insopportabile di questo mondo, di cui peraltro, all’inizio, ero tanto soddisfatto», di cui tutti sono responsabili, grida Clamence, il protagonista di un racconto del 1956, La caduta, perché la connivenza con il male e la menzogna provoca conseguenze imprevedibili. «Le ideologia su cui fondiamo le nostre vite — continua l’autore dell’Homme révolté — sono in ritardo di cent’anni, ed è per questo che reagiscono così male alle innovazioni. Non c’è niente di più convinto della propria verità di un’ideologia andata a male».

Per superare la misteriosa pulsione di morte che lo segna nel profondo, l’uomo dovrebbe essere trasfigurato da qualcosa o qualcuno che non coincida con lui stesso, perché «c’è sempre nell’uomo una parte che vuole morire. È quella che domanda di essere perdonata», scrive Camus, uno dei padri dell’esistenzialismo ateo del Novecento. Per questo «l’amore di Dio — continua lo scrittore francese — è, a quanto pare, il solo che riusciamo a sopportare, perché vogliamo sempre essere amati malgrado noi stessi».

 

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