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Il rischio di una Chiesa che sbandiera il papa come fiore all’occhiello

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Finesettimana.org - pubblicato il 30/12/14
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Che sia questa l’occasione per una sequela più fedele del Signore?di Francesco Castelli

Tanto si è detto e scritto — a proposito e non — sulla figura di Francesco in questo primo anno di pontificato. Una forse delle manifestazioni meno esplorate del suo ministero è stata la sua capacità di indignazione. Ne parliamo con don Angelo Casati, presbitero della diocesi di Milano, per più di vent'anni nella parrocchia di San Giovanni in Laterano, autore di numerose pubblicazioni che spaziano dalla poesia, a commenti alla Parola, a riflessioni spirituali (e storica firma di Servitium). Di fronte a qualcosa che minaccia o addirittura ferisce la dignità umana, Francesco ha spesso levato forte la sua voce. Con la sua capacità di indignarsi Francesco si è scagliato forse, prima di tutto, contro l'incapacità di comprendere di chi reca l'offesa, in quanto non sa valutare che mette in gioco qualcosa che pure lo riguarda. Come vedi lo "stile Francesco" su questo punto?

Angelo Casati:Concordo: tanto si è detto in questo anno di Francesco, il vescovo di Roma. Secondo alcuni troppo. Ma sarebbe anche opportuno chiederci perché il mondo ne abbia parlato e ne stia parlando ancora così tanto. Personalmente ritengo che in gran parte accada perché è come se in lui, e non semplicemente nelle sue parole, donne e uomini di oggi intravedessero qualcosa del vangelo, come se il mondo avvertisse che per mezzo di lui si sta introducendo nella chiesa un clima nuovo, più evangelico, un atteggiamento non di condanna ma di sostegno, un invito ad avere più fiducia in Dio, nella vita, nelle possibilità dell'essere umano. Questa osservazione mi introduce a osare un frammento di risposta alla domanda sullo "stile Francesco" a proposito di "indignazione". La tua domanda infatti sullo "stile", a mio avviso, coglie lucidamente il nodo del problema. Un po' rozzamente mi verrebbe da dire che parole di indignazione, anche se non forse nel numero che ci saremmo aspettati, ne sono state pronunciate lungo i tempi dagli uomini di chiesa. Ma la novità mi sembra di scorgerla nello stile della indignazione di Francesco. Lo stile che non è un dettaglio, come a volte si è tentati di pensare, ma è già per se stesso annuncio e messaggio evangelico. Le indignazioni del passato, non tutte certo, spesso ci sembravano venire dall'alto nella forma della declamazione, una declamazione apparentemente a occhi asciutti. Era come se gli uomini di chiesa lo facessero senza metterci volto, come se la cosa riguardasse la chiesa in astratto. Non dico che le parole di Francesco non siano un pronunciamento della chiesa, ma mi sembra di avvertirle come abitate da una sofferenza personale, come di uno che ha visto, ha toccato, e parla dopo aver visto e toccato. Ha visto e toccato l'offesa della carne e la porta negli occhi dolenti, nella voce che implora difesa. Uno che, per stare all'immagine, si porta addosso l'odore delle pecore.

Francesco, nelle sue varie denunce — sia intra che extra ecclesiali,— non si è tanto soffermato solo su un singolo diritto violato, ma ha sottolineato forse più ciò che in quella violazione viene potentemente alla ribalta, ciò che quel diritto dichiara come valore da preservare e che invece viene misconosciuto. È quello che in tante occasioni Francesco ha denunciato sotto il motto: «Peccatori sì, corrotti no!», contro cioè il rischio di accettare lo stato di corruzione come fosse solo… un peccato in più. Spesso il papa ha evidenziato come il corrotto compaia nel Vangelo come colui che gioca con la verità. Come vedi su questo punto il Francesco-pensiero?

Angelo Casati: Mi sembra di cogliere in quello che tu chiami "Francesco-pensiero" quasi lo sgomento davanti a un assurdo che ha per lui dell'incredibile", davanti a un concentrato di disumanità che ha dell'inimmaginabile, quasi una sfigurazione dell'immagine di Dio abissalmente inconcepibile. Quasi che nel suo pensiero Francesco potesse in qualche misura capire, pur non giustificandolo, un peccato che parla di una debolezza umana, un peccato che vive di un momento, che viene rdiventa umanamente radicalmente devastante, per lui inconcepibile, il peccato di chi a occhi aperti, senza un minimo di esitazione, con efferatezza, piega tutto ai propri disegni, incurante del grido di sangue che sale a Dio dalla terra. Per di più dentro un sistema che si rigenera imperterrito nel tempo. Dentro un sistema inquietante anche per questo: perché, per paradosso, si avvale strumentalmente di riti, di parole, di libri, di gesti che appartengono alla fede, assurdamente abusati, per dire e difendere ciò che alle radici sconsacra e violenta il messaggio della fede. Un sistema che non ha nessuna relazione, né potrà mai averla, con Dio. È la vittoria della cecità interessata. A volte mi capita di riandare nella memoria alla indignazione di Gesù. Il mio è un pensiero molto personale, posso sbagliarmi, ma nel Vangelo i "guai!" più duri, apparentemente senza pietà, di Gesù sono stati indirizzati a chi, da un lato, abusava della religione per fini personali o di gruppo e, dall'altro, a chi abusava di piccoli e di poveri. Gli stessi toni sembra di ritrovare nelle parole di Francesco contro i corrotti, i corrotti politici, i corrotti ecclesiastici, i corrotti affaristi. La durezza dell'indignazione per il disprezzo dei piccoli e dei poveri sembra allora accendere le parole del papa: «Scandalizzano, perché sfruttano quelli che non possono difendersi, schiavizzano». Essi, dice, «hanno sfruttato gli innocenti, coloro che non possono difendersi e lo hanno fatto con i guanti bianchi, da lontano, senza sporcarsi le mani». Eco dell'indignazione di Gesù per l'ipocrisia trionfante.

La forza profetica del vangelo è per Francesco ciò che ci colloca nella verità delle cose. Egli la "utilizza" però non per condannare ma per invitare alla conversione chi è slegato dalla relazione con Dio. Quanto la missione di Francesco può su questo punto correre dei rischi?

Angelo Casati: Nella durezza dell'indignazione, quella di papa Francesco come quella di Gesù, sembra di vedere un estremo tentativo di svegliare una coscienza assopita e comatosa. Lo sguardo non è inceneritore, lo sguardo svela un desiderio, nonostante tutto, di salvezza. Il suo riferimento va ad Acab, a Zaccheo. C'è una porta di uscita, una porta di uscita per i corrotti? Sì! «Quando sentì tali parole, Acab si stracciò le vesti, indossò un sacco sul suo corpo e digiunò. Si coricava con il sacco e camminava a testa bassa. Cominciò a fare penitenza.» Questa, sottolinea il papa, «è la porta di uscita per i corrotti, per corrotti politici, per i corrotti affaristi e per i corrotti ecclesiastici: chiedere perdono!». Aggiunge: «Dio perdona, ma perdona quando i corrotti fanno quello che ha fatto Zaccheo: "Ho rubato, Signore! Darò quattro volte quello che ho rubato! "». Siamo lontani da un buonismo a basso prezzo, il prezzo davanti all'accadere della misericordia non può essere se non la conversione. Questo rimane in assoluto il cuore dell'evangelo che non può essere impallidito: «Dio ha tanto amato il mondo da dare per noi il suo figlio, l'unico». Dovremmo scriverlo sulle pareti delle chiese, e forse ancor più sulle pareti dell'anima. L'amore e l'ampiezza: «Ha amato… il mondo». Se c'è un pericolo per la chiesa d'oggi — e ce ne mette in guardia papa Francesco, nella Evangelii gaudium — è quello di una fede che insiste su aspetti secondari e non si concentra sull'essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. Succede — dice — quando si parla più della legge che della grazia, più della chiesa che di Gesù Cristo, più del papa che della parola di Dio. Se tale invito non risplende con forza e attrattiva — dice il papa —, l'edificio morale della chiesa corre il rischio di diventare un castello di carte, e questo è il nostro peggior pericolo. Poiché allora non sarà propriamente il vangelo ciò che si annuncia, ma alcuni accenti dottrinali o morali, che procedono da determinate opzioni ideologiche. Il messaggio correrà il rischio di perdere la sua freschezza e di non avere più "il profumo del vangelo" (nn. 35.38.39).

Nemmeno il grido dell'indignazione può velare il cuore del vangelo.

Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, nessuna; lui è lì, piange con loro, lavora con loro, spera con loro; il suo amore paterno e materno arriva dappertutto. (Ai cappellani del carcere, 23.10.2013)

Così lo scorso anno Francesco denunciava — con parole forse inusuali come tono — la realtà carceraria italiana.  Quale il valore anche "politico" di pronunciamenti come questo o come la primaavanda dei piedi nel carcere minorile di Casal di Marmo? Quanto la verticalità intreccia l'orizzontalità?

Il valore "politico", a mio avviso, sta nell'attenzione che il papa suscita con i suoi gesti. Mi viene fatto di pensare che immediatamente lui non compia i gesti per insegnare, li compie perché è la sua natura, è la natura stessa del vangelo. Gesù ha lavato i piedi sporchi di sabbie e stanchi di cammino dei suoi discepoli e lui, perché la cena del giovedì santo sia nella verità, va a celebrarla nel carcere minorile di Casal di Marmo e durante la liturgia lava i piedi a dodici giovani detenuti di nazionalità e confessioni diverse, tra cui due ragazze, una italiana di religione cattolica e una serba, nata a Roma, di fede musulmana. «Questi ragazzi mi aiuteranno di più a essere umile, a essere servitore, come dev'essere un vescovo» dice al termine della visita all'istituto. «Quando mi è stato chiesto dove volevo andare in visita, la scelta di Casal di Marmo mi è venuta dal cuore» ha aggiunto, «le cose del cuore non hanno spiegazione». Sono gesti che dicono che l'altro è di più della colpa che lo può aver condannato, è persona con cui si può coltivare una relazione. Ai cappellani delle carceri ha confidato di tenere rapporti con i detenuti del carcere di Buenos Aires, continua a ricevere lettere da loro e li chiama per telefono. Tocca alla politica rilevare quanto le condizioni delle carceri suonino sconfessione aperta della dignità di chi è incarcerato. Dirà:

Anche Dio è un carcerato, non rimane fuori dalla cella. Lui è un carcerato, dei nostri egoismi, dei nostri sistemi, delle tante ingiustizie che è facile applicare per punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano liberamente nelle acque".

Sempre rivolgendosi ai cappellani dirà loro:

Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche di una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare".

L'invito è a fare!

L'attenzione agli ultimi sembra uno dei leitmotiv anche nella scelta dei viaggi di Francesco. In Italia sembra che finora abbia scelto soprattutto terre di sofferenza dove alta si leva — o si dovrebbe levare — una voce di indignazione: la Lampedusa dei profughi, la Sardegna della disoccupazione epidemica, la Calabria e la Campania dove la sfida delle mafie è massima. Sono tappe che indicano una sensibilità nuova?

Angelo Casati: Franca Giansoldati del Il Messaggero in una sua recente intervista chiede a papa Francesco dove stia andando la «chiesa di Bergoglio». Risposta:

Grazie a Dio, non ho nessuna chiesa, seguo Cristo. Non ho fondato niente Dal punto di vista dello stile non sono cambiato da come ero a Buenos Aires. Sì, forse qualcosina, perché si deve, ma cambiare alla mia età sarebbe stato ridicolo. Seguo Cristo. 

E sembra di cogliere in Francesco, oserei dire, una meraviglia o meglio uno sconcerto per una chiesa che non ascolta il grido dei poveri. Parole forti le sue che prendono di petto i "difensori dell'ortodossia" che poi risultano gravemente colpevoli di complicità con situazioni di in. giustizia. Parlando dell'opzione per i poveri, così scrive nella Evangeli gaudium, al n. 194:

È un messaggio così chiaro, così diretto, così semplice ed eloquente, che nessuna ermeneutica ecclesiale ha il diritto di relativizzarlo. La riflessione della chiesa su questi testi non dovrebbe oscurare o indebolire il loro significato esortativo, ma piuttosto aiutare a farli propri con coraggio e fervore. Perché complicare ciò che è così semplice? […] Gesù ci ha indicato questo cammino di riconoscimento dell'altro con le sue parole e con i suoi gesti. Perché oscurare ciò che è così chiaro? Non preoccupiamoci solo di non cadere in errori dottrinali, ma anche di essere fedeli a questo cammino luminoso di vita e di sapienza. Perché ai difensori dell'ortodossia si rivolge a volte il rimprovero di passività, d'indulgenza o di colpevoli complicità rispetto a situazioni di ingiustizia intollerabili e verso i regimi politici che le mantengono.

Sempre in Evangelii gaudium Francesco scrive: "Dio ci liberi da una chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali!". Prosegue il papa: "Questa mondanità asfissiante si sana assaporando l'aria pura dello Spirito santo, che ci libera dal rimanere centrati in noi stessi, nascosti in un'appartenenza religiosa vuota di Dio".

Recentemente il vescovo Bregantini ha affermato: «Corriamo il rischio di una chiesa che ammira papa Francesco ma non lo segue». Si corre veramente il rischio di uno "scarto" e di una chiesa che però non sia neppure in grado di andare oltre l'indignazione?

Angelo Casati: Questa mi sembra la sfida e questo il rischio che stiamo correndo, quello in cui largamente e scandalosamente siamo incorsi lungo i secoli, quello della declamazione, una chiesa che declama dall'alto; come dice mons. Bregantini, una chiesa che «ammira il papa ma non lo segue». Abbiamo visto troppo spesso piazze affollate, esaltate in una «appartenenza religiosa vuota di Dio»: così ne parla Francesco. Una chiesa centrata su se stessa, preoccupata di sé, dei suoi beni e dei suoi successi e dunque una chiesa che sbandiera il papa come il suo fiore all'occhiello, quasi le fosse offerta una chance insperata di dare lustro a se stessa. Come non augurarci che questo sia invece, per grazia, il momento, l'occasione da non lasciarci sfuggire, l'occasione di un papa "cristiano" —tale definiva papa Giovanni XXIII Hannah Arendt in un suo minuscolo libro — per rivedere noi stessi, la chiesa in ogni sua espressione e articolazione, alla luce del vangelo. Per una sequela più fedele del Signore. E pregare che il sangue scorra nelle vene.

[“Servitium” n. 215-216 del settembre-dicembre 2014]

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