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Il protagonista nascosto

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Alver Metalli - Terre D'America - pubblicato il 20/12/14
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Chi scriverà la storia della caduta del muro dei Caraibi dovrà puntare i riflettori sul cardinale di l’Avana Jaime Ortega y AlaminoE’ un grande passo in avanti l’annuncio dato in simultanea dai presidenti Obama e Castro. Non un traguardo raggiunto. Una svolta, questo sì. Ci vorranno tanti altri passi perché il cambiamento si estenda alle istituzioni e alla società cubana e il disgelo investa la società statunitense e le comunità cubane residenti nella grande nazione del nord dell’America. Ma la svolta c’è. Sorprendente come ogni svolta, anche per chi veniva annotando una sequenza ininterrotta di passi da cinque anni a questa parte. E come avviene quando una svolta è tale, essa va ascritta a più di un protagonista. Non è mai il risultato di un solista. Quelli su cui si sono puntati i riflettori dei media, Il Papa, il suo Segretario di stato, Obama e alcuni stretti collaboratori, Castro e tre o quattro personalità del governo di cui al momento opportuno occorrerà parlare, e – in varia misura – gli ultimi tre nunzi che hanno ricoperto l’incarico di delegati papali a Cuba. Ma c’è qualcun altro che non è stato sufficientemente menzionato nei commenti di queste ore. La Chiesa cubana e chi l’ha presieduta da oltre un trentennio, il cardinale di l’Avana Jaime Lucas Ortega y Alamino. La “svolta” del suo primariato, iniziato nel 1981, ha preparato e preceduto lo sbocco a cui stiamo assistendo. Quella del porporato cubano è stata una scommessa per il dialogo con il governo, per una cultura dell’incontro ante litteram perseguita con determinazione quando gli orientamenti erano altri, più proclivi al conflitto, alla non negoziabilità di valori come le libertà e i diritti umani.

E viene alla mente un episodio emblematico che può segnare la data di partenza del processo che oggi ha portato allo storico riavvicinamento. Nell’ultimo plenum cardinalizio prima dell’inizio del conclave che ha eletto Bergoglio Papa è stato lui, il cardinale di l’Avana Ortega y Alamino, a chiedergli gli appunti dell’intervento che l’arcivescovo di Buenos Aires aveva appena fatto nella congregazione generale. Evidentemente le parole ascoltate avevano richiamato l’attenzione del porporato cubano. Che fece riprodurre le note manoscritte in italiano nel sito della rivista dell’arcidiocesi di l’Avana Palabra Nueva accompagnandolo da una foto. Lo scatto ritraeva Papa Francesco sorridente, che appoggiava entrambe le mani sulle spalle del suo elettore. L’immagine affianca il testo dell’appunto in versione fotostatica con trascrizione del suo contenuto e traduzione a seguire.

Intercettammo quell’appunto poche ore dopo la pubblicazione on line e chi scrive si affrettò a riproporla in Terre d’AmericaPalabra Nueva accompagnò la riproduzione del manoscritto del futuro Papa rivelando le parole con cui lo stesso Ortega ne chiese la copia a Bergoglio: gli disse di “di coincidere” con le cose ascoltate e di voler portare quelle parole con se a Cuba. Il giorno dopo il porporato cubano ricevette le due pagine dalle mani di Bergoglio, che ne autorizzò la diffusione, permesso che papa Francesco ha poi ratificato nel saluto al confratello dopo l’elezione.
E cosa c’era scritto in quell’intervento che l’arcivescovo di l’Avana definì in altra occasione “magistrale, perspicace, coinvolgente e vero”? Che “l’evangelizzazione è la ragione d’essere della Chiesa”, che essa “è chiamata ad uscire da se stessa ed andare verso le periferie, non solo geografiche, ma anche esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, dell’ignoranza e dell’indifferenza religiosa, quelle del pensiero e di ogni miseria”; che “quando la Chiesa non esce da se stessa per evangelizzare diventa autoreferenziale e s’ammala”; che “ i mali che nel tempo infettano le istituzioni ecclesiali hanno radice nell’autoreferenzialità, una sorta di narcisismo teologico”; che “quando la Chiesa è autoreferenziale, crede, senza accorgersene, di avere luce propria; cessa di essere misterium lunae e dà luogo a questo male tanto grave che è la mondanità spirituale”.

Tutte cose che sintetizzavano alla perfezione la “linea Ortega”. Quella di una “cultura dell’incontro” che mentre veniva riproposta da Borgoglio-Papa dalla sede di Roma, sino a diventare un principio attivo della diplomazia vaticana, era praticata a Cuba producendo risultati del tutto simili agli attuali: la liberazione dei prigionieri, l’apertura di spazi inediti di presenza sociale, maggiori libertà individuali, un inizio di cambiamenti sul piano delle istituzioni democratiche e un avvio di riforme su quello economico.

Una linea che, come ora per papa Francesco, ha avuto i suoi avversari nei fautori della scomunica, dell’opposizione, della denuncia ad oltranza delle violazioni dei diritti umani e dell’assenza di libertà individuali.

Ortega y Alamino ha compiuto 78 anni nell’ottobre del 2013, e da tre ha presentato le sue dimissioni nelle mani di Benedetto XVI, come da prassi per i cardinali di Santa romana chiesa al raggiungimento del 75esimo natalizio. Ma il successore di Benedetto, papa Francesco, non ha dato fino ad ora mostra di volerle accettare. Anzi. Gli ha affidato diverse missioni come suo inviato speciale, in El Salvador nell’agosto del 2013, nel Québec in Canada nel mese di settembre di quest’anno. Un paese, quest’ultimo, che – adesso lo sappiamo – in tutta riservatezza ha ospitato incontri tra le parti.

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