Un rapporto della Chiesa australiana ha luci e ombre sull’analisi del fenomenoCon la data del 15 dicembre 2014 è stato pubblicato in Australia il rapporto del consiglio “Truth Justice Healing” (“Verità, giustizia, guarigione”), promosso dai vescovi cattolici e dagli ordini religiosi per interagire con le autorità civili sui casi di pedofilia imputati a sacerdoti e religiosi. Il rapporto è molto severo con il comportamento passato di vescovi e sacerdoti australiani, che spesso hanno difeso confratelli certamente colpevoli, e testimonia come la Chiesa in tema di pedofilia oggi non solo non voglia nascondere nulla ma sia spesso più severa con se stessa degli osservatori esterni non cattolici. Certamente non si può negare che l’Australia – insieme all’Irlanda e a certe diocesi degli Stati Uniti – sia stata teatro di alcuni degli episodi più vergognosi di abusi di minori commessi da sacerdoti e religiosi, e la severità è benvenuta oltre a corrispondere a precise richieste di Benedetto XVI e di Papa Francesco. Alcune parti del rapporto raccomandano misure pratiche di buon senso, e invitano – in modo del tutto condivisibile – non solo a rimanere vicini alle vittime, ma a risolvere i problemi di risarcimento preferendo la via amichevole e collaborativa a quella delle cause civili, che spesso arricchiscono solo gli studi legali.
Il rapporto, però, è molto debole nell’analisi delle cause del fenomeno. Si parla di una cultura “clericale” – con il sacerdozio inteso più come potere che come servizio – che ha portato sacerdoti e vescovi a coprire e proteggere i pedofili, e del ruolo negativo dell’obbedienza e degli “ambienti chiusi”. Intendiamoci: forme di clericalismo esistono davvero, e Papa Francesco non cessa di denunciarle. Tuttavia la paginetta dedicata dal rapporto alle cause della tragedia degli abusi commessi dai sacerdoti non rende giustizia a decenni di indagini sociologiche sul tema e alle stesse prese di posizione del Magistero. Non è forse un caso se della Commissione fanno parte teologi, psicologi ed esperti di assistenza sociale, ma nessun sociologo che abbia studiato questi fenomeni con metodi quantitativi.
Avendo dedicato al tema qualche libro e qualche riflessione – anche partecipando ai lavori di Commissioni internazionali di esperti sul punto – mi permetto di muovere tre rilievi al documento australiano. Il primo è che sembra cadere nella superstizione diffusa secondo cui i fenomeni che si manifestano negli ambienti religiosi hanno sempre cause non religiose e non dottrinali. Il desiderio di potere e il clericalismo esistono: ma occorrerebbe chiedersi sempre da dove vengono. Ci si dovrebbe così porre la domanda se la matrice di un certo neo-clericalismo non sia il progressismo del dopo-1968, e se questo stesso progressismo non abbia introdotto nel mondo cattolico un germe ancora più pericoloso degli atteggiamenti clericali: il dubbio gettato sulla teologia morale della Chiesa e una «morale della situazione» per cui la sincerità e l’”amore” sono più importanti di ogni criterio oggettivo. Che la pedofilia e gli abusi fossero figli della rivolta contro la morale scoppiata dopo il 1968 nella Chiesa era suggerito dalla Lettera ai cattolici d’Irlanda di Benedetto XVI del 2010. Stupisce che questo testo molto profondo, lodato anche da specialisti del tema non cattolici, sia completamente ignorato dal documento australiano.
Il secondo rilievo è che – forse per comprensibile e umana prudenza – il testo australiano evita qualunque riflessione e perfino qualunque accenno alle relazioni fra il problema dei preti pedofili e il diverso problema dei preti omosessuali. Intendiamoci anche qui: un po’ di prudenza è legittima, e ogni volta che si affronta questo tema occorre sempre sottolineare a gran voce – per non alimentare errori non supportati da alcun dato – che la pedofilia in genere non è più diffusa fra gli omosessuali che fra i non omosessuali. La maggior parte dei pedofili mondiali è costituita da padri di famiglia. E naturalmente la stragrande maggioranza degli omosessuali non ha nulla a che fare con la pedofilia, anzi la condanna. Il problema non riguarda gli omosessuali in genere. Riguarda i preti. A loro riguardo, molti studi – di specialisti che nessuno, conoscendoli, potrebbe sospettare di “omofobia” – hanno messo in luce una possibile relazione fra una subcultura omosessuale che si è diffusa in alcuni seminari e ordini religiosi e l’aumento dei casi di abusi, del resto commessi quasi sempre da sacerdoti e religiosi maschi ai danni di minorenni anch’essi maschi.
Il rapporto australiano ha forse in mente questo problema quando scrive che ha contribuito al fenomeno «il modo in cui i candidati al sacerdozio e alla vita religiosa sono stati accettati al momento del loro ingresso». Ma, dal momento che esistono documenti del Magistero cattolico che parlano specificamente di candidati omosessuali – per esempio, l’«Istruzione della Congregazione per l'Educazione Cattolica circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri», del 4 novembre 2005 –, il fatto che nell’intero rapporto australiano la parola omosessuale non ricorra neppure una volta lascia il sospetto che si sia sacrificata un po’ di precisione sull’altare del politicamente corretto.
Terzo rilievo. Il rapporto australiano dice molte cose interessanti, ma è finito sui giornali di tutto il mondo per un’affermazione enunciata in una sola riga e non sviluppata: «il celibato obbligatorio può anche in talune circostanze avere contribuito all’abuso». Sembra qui che le polemiche seguite a un analogo rapporto olandese del 2013 non abbiano insegnato nulla ai redattori del documento australiano. La questione è stata discussa in modo approfondito in un documento di ben altro spessore accademico, il terzo dei tre rapporti commissionati dalla Conferenza Episcopale Americana all’autorevole (e non cattolico) John Jay College della City University of New York, datato maggio 2011, dal titolo “Le cause e il contesto dell’abuso sessuale dei minori da parte di preti cattolici negli Stati Uniti, 1950-2010”.
Il rapporto americano esamina precisamente la tesi che definisce più diffusa in quelli che chiama«media popolari»: quella che lega gli abusi sui minori al celibato. Ma, osserva lo studio, «è un’ovvia osservazione statistica che la maggioranza degli abusi sessuali su minori sono commessi da uomini che non sono celibatari»: pastori protestanti, maestri di scuola, allenatori di squadre giovanili, e anche padri di famiglia che abusano dei figli ovviamente non hanno fatto promesse di celibato. A questo dato comune negli studi sociologici – ma che sembra tenacemente sfuggire alla stampa popolare e anche a qualche ecclesiastico australiano – il rapporto aggiunge che il celibato tra i preti cattolici c’era negli anni 1950 e 1960, è rimasto negli anni 1970 e 1980, e c’è ancora oggi. Dal momento però che gli abusi su minori sono relativamente rari negli anni 1950 e 1960, esplodono negli anni 1970 e 1980, diminuiscono negli anni 1990 e diventano di nuovo rari negli anni 2000 ovviamente non può essere il celibato a spiegare questo andamento.
Agli autori del rapporto australiano va posta la domanda che molti studiosi avevano già rivolto ai loro colleghi olandesi, che pure avevano menzionato il celibato fra le cause possibili della pedofilia. Il rapporto del John Jay College paragona i dati statistici della Chiesa cattolica a quelli di molte comunità protestanti, ed ebraiche e ancora alle scuole pubbliche, le società sportive giovanili, i boy scout non cattolici, e conclude che negli altri ambienti presi in esame gli abusi su minori sono più numerosi rispetto alle scuole e parrocchie cattoliche, nella spettacolare misura di sedici a uno. Inoltre, la maggioranza degli abusi pedofili avvengono in famiglia. Se in ambienti non celibatari la pedofilia e gli abusi sono molto più diffusi che fra il clero cattolico celibe, che diamine c’entra il celibato?
Lascio volentieri la conclusione a Papa Francesco. Nel suo libro-intervista curato da Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti, e pubblicato in Italia con il titolo Papa Francesco, così il futuro pontefice rispondeva alla domanda se la pedofilia c’entrasse con il celibato: «Il 70% dei casi di pedofilia si produce in un ambito familiare e di vicinato. Abbiamo letto cronache di bambini abusati dai propri papà, dai propri nonni, dai propri zii e anche dai patrigni. Voglio dire, si tratta di perversioni di tipo psicologico che prescindono da una scelta di celibato, Se un prete è pedofilo, lo è perché porta dentro di sé tale perversione da prima dell’ordinazione».