25 donne cercano in papa Francesco un alleato in una richiesta di riconoscimento della loro voce pubblicaSono due percorsi nuovi che si sono intrecciati. Nella ridefinizione di una propria funzione sociale come donne laiche, in alcuni casi profondamente laiche, in una società cattolica come la nostra, alcune donne hanno scritto al papa offrendogli l’unicità di un proprio punto di vista sui “deboli”. I deboli dalle tante facce, quelle dei figli di famiglie in difficoltà, quelle dei disoccupati e dei sottopagati, quelle di molte comunità ecclesiali, e così via. Di tutti costoro si occupano le autrici, da Dacia Maraini a Nicoletta Dentico, dei contributi contenuti in Caro Francesco: 25 donne scrivono al Papa. Riflessioni al femminile sulle parole-chiave del Pontificato di Francesco (Il pozzo di Giacobbe, 2014), testo che sarà presentato martedì 9 dicembre a Roma presso l’Università Gregoriana (ore 17). Il libro è una tappa importante di due percorsi che non solo s’intrecciano ma che si sostengono l’un l’altro: quello delle donne nella ricerca di un più condiviso riconoscimento nel pubblico, e quello di Francesco, nella costruzione di una chiesa “meno clericale” e più attenta alle periferie. Ne abbiamo parlato con la professoressa Emilia Palladino, docente presso la Facoltà di Scienze sociali della Pontificia Università Gregoriana, e autrice di un contributo del libro.
Perché queste 25 donne hanno deciso, proprio ora, di scrivere al papa?
Palladino: In realtà è stata un’intuizione dell’editore quella di chiedere loro di scrivere al papa. Probabilmente queste donne non ci avrebbero pensato da sole, e questo già fa riflettere sulla possibilità che viene data solitamente al laicato femminile di esprimersi pienamente. È stata un’occasione che ci è stata offerta e che sono sicura tutte hanno accolto, come nel mio caso, con grande entusiasmo. Come una grandissima possibilità di esprimere pienamente tutto quello che pensiamo, che abbiamo nel cuore. In particolare, abbiamo offerto la particolarità della lettura femminile dei problemi, la passione sugli argomenti che ci sono stati posti. Quindi, più che sentire il bisogno, non vedevamo l’ora di lavorare a questo libro.
È stato il segno di una nuova chiamata al laicato femminile a intervenire attivamente?
Palladino: Io non parlerei di “nuova chiamata”, quanto di una maggiore responsabilizzazione. Il riconoscimento della voce femminile nella Chiesa c’è sempre stata da Pio XII in poi. La vera novità è nel fatto dell’uscita pubblica della voce femminile. Questa sì che è una cosa recentissima, che prende il suo spunto iniziale dal discorso che papa Francesco pronunciò in aereo agli inizi del suo pontificato sul tema della “teologia della donna”. In realtà questo libro credo che rappresenti il desiderio di ascoltare le donne e di vedere che cosa hanno da dire pubblicamente.
Il ruolo secondario, finora, della donna nella nostra cultura è anche figlio di quel clericalismo che papa Francesco combatte?
Palladino: Secondo me, sì: questa potrebbe certamente essere una chiave di lettura. In questo io sono d’accordo con papa Francesco: il clericalismo uccide la maturazione delle persone, non solo spirituale, ma anche umana. La chiude, indipendentemente da chi sia coinvolto: laici, chierici, uomini, donne. È proprio il modello ecclesiologico del clericalismo che impedisce la crescita e la maturazione personale. È come vivere sotto un’oppressione sempre costante. Chiaramente uno dà il meglio che può, magari pensa di dare il meglio, ma non appena viene tolto un certo “tappo” scopre possibilità di crescita e di affermazione –non in senso di potere, ma di autodeterminazione – davvero importanti e responsabilizzanti. Questa forse è la lettura culturale del momento che stiamo vivendo. È come se qualcuno ci avesse detto: bene, ci sono più spazi da occupare in termini di crescita personale e comunitaria, che facciamo, li occupiamo? La risposta è sì.
Papa Francesco sta cercando in queste donne, anche in quelle più lontane dalla Chiesa, delle alleate per la propria battaglia contro il clericalismo?
Palladino: Forse è il contrario, sono le laiche che cercano in papa Francesco un alleato. È una questione di sensibilità. Indipendentemente dalla posizione interiore di ognuna – alcune di noi sono fortemente laiche – c’è una disposizione comune alla cura degli altri e all’attenzione per chi ha bisogno. In questa visione di cura, di amore, di passione e di lotta per la verità, avere come alleata la fede, indipendentemente dal fatto che si creda o meno, è qualcosa di straordinariamente potente, anche a livello interiore. Significa avere la possibilità di poter camminare su binari analoghi senza combattersi. Pur partendo da presupposti ideologici differenti, se tutte sentiamo di dover combattere ingiustizie che sono evidenti nella società, è chiaramente differente farlo insieme. È una maturazione enorme da un punto di vista della collaborazione verso la crescita per il bene e il meglio.
Qual è un denominatore comune tra gli interventi?
Palladino: Quello che mi viene subito in mente è l’atteggiamento di fondo, la profondissima accoratezza negli interventi. Quello di ognuna è un intervento accorato, quasi supplicante, rivolto a papa Francesco: “Guardaci!”. C’è un bisogno di essere guardate nel nostro modo di trattare il tema che ci viene richiesto di discutere. È una richiesta non rivolta solo a lui: noi diciamo, istituzioni guardateci! Sistema politico guardaci! Chiesa, guardaci! Voi uomini, guardateci! C’è una passione che nasce dal coinvolgimento a tutto tondo nelle cose di cui si scrive. Gli interventi sono tutti nati da esperienze ordinarie di queste cose. Per esempio, io mi sono occupata di denaro partendo da un’esperienza personale, e lo stesso stile è in tutti gli interventi: c’è sempre qualcosa che richiama a condizioni vissute. Un altro denominatore comune riguarda il contenuto, ed è l’attenzione per i più deboli. Sono i figli, ad esempio, nella questione della conciliazione famiglia-lavoro; sono i poveri per la questione della giustizia sociale; nel mio caso sono quelli che hanno visto il loro potere d’acquisto cadere drasticamente perché il lavoro fatto non viene retribuito il giusto. Ma i deboli sono anche le comunità ecclesiali che in ambito liturgico assistono a qualcosa che le separa dalla bellezza della Chiesa. C’è sempre un meccanismo di bisogno: le donne che hanno scritto vedono una fragilità, in tutti i vari campi, e rispondono a questa. È la classica prospettiva dei più deboli. Io ti devo aiutare a vivere, non ti devo aiutare ad uscire da un problema. Per le donne questo è un tema urgente: anche se non sono mamme, è proprio l’attenzione al “piccolo” che fa leggere la realtà in questa chiave. Come ti dò la vita, come ti faccio vivere bene facendoti esprimere al massimo delle tue possibilità?