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Sergio Castellitto: “Sogno ancora padre Pio”

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Credere - pubblicato il 24/11/14
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L’attore confessa di sentire il frate vicino: “Atei e credenti, invita tutti a conoscere la propria anima”di Laura Bellomi

«Lo sogno ancora, mi mette continuamente in discussione». A quasi quindici anni dalla fiction Padre Pio, prodotta da Angelo Rizzoli per Videotrade Audiovisivi e trasmessa in Italia nel 2000, l’attore Sergio Castellitto non ha dimenticato il frate di Pietrelcina, anzi. Con lui sente ancora una grandissima familiarità.

Castellitto, chi è per lei padre Pio?
«Un uomo. Un uomo della terra, capace di piangere, che è diventato un uomo di Dio, del cielo. Un uomo che mi ha segnato, tant’è che ancora mi capita di sentirlo vicino. Interpretare padre Pio mi ha cambiato, il film si è rivelato un’occasione preziosa per documentarmi, leggere libri, parlare con persone che l’avevano conosciuto. E così è come se fosse nata una vicinanza speciale, mi sono sentito scelto da lui. Nei sogni spesso i significati passano attraverso un pezzo di pane, una passeggiata, ma poi ho sempre la sensazione netta di avere avuto a che fare con lui».

Per lei quindi interpretare padre Pio non è stato solo un lavoro?
«No, anzi, è stato un cammino dentro la spiritualità, al di là delle convinzioni religiose e delle domande che ognuno di noi si pone».

Quando padre Pio è morto, nel 1968, lei aveva quindici anni. Cosa ricorda?
«Ero troppo piccolo. Ma padre Pio mi è sempre stato familiare, siamo entrambi uomini del Meridione: lui veniva dalla provincia di Benevento, la mia famiglia da Campobasso. Conoscevo il padre Pio popolare, quello raccontatomi da mia mamma e dalle mie sorelle. Non ero devoto, ero affascinato dalla sua figura e dalla devozione che riusciva a far scaturire in tutti. Padre Pio era come il pane della fede, soprattutto per gli ultimi».

Poi nel 2000 interpretò il frate, dai 20 anni alla morte. Che cosa pensò quando le proposero la parte?
«Percepii che sarebbe stata un’occasione irripetibile perché il personaggio racchiudeva in sé più di un mistero».

Ai suoi occhi quale era il mistero di padre Pio?
«La vicinanza a Dio nella quotidianità di una vita semplice, contadina. Padre Pio non ha sperimentato la fede solo come luce e intelligenza, ma anche come fisicità».

Cosa fece per conoscere meglio Francesco Forgione, poi diventato il cappuccino fra Pio?
«Passai qualche giorno a Morcone, il primo convento dove era stato da novizio e dove ricevette il nome di fra Pio. Volevo assaporare la consuetudine di vita e le regole, il paesaggio fatto di orti, silenzio e albe, per cercare di capire come aveva vissuto il frate».

Si sentiva a suo agio con saio e cordone?
«Percepivo il saio non come un indumento ma come il mio corpo. Ricordo la lana ruvida, che non tiene caldo. Al cordone, che padre Pio utilizzava anche per dare qualche frustatella, ero legato per il richiamo simbolico all’essenzialità».

Quanto le è costato rendere sue le occhiaie, la barba e l’andatura affaticata del frate?
«Interpretare padre Pio nella vecchiaia mi ha imposto un grande lavoro sul corpo. Ho perso diversi chili e per capire il dolore che provava nel camminare ho infilato dei pungoli nelle scarpe… L’elaborazione della sofferenza ha fatto il resto. Un giorno ho passato cinque ore al trucco per invecchiare. Quando poi mi sono rivisto allo specchio, nella penombra, ho avuto il privilegio di vedermi alla fine della vita, con una somiglianza incredibile a mio padre».

Che rapporto ha avuto con le stimmate?
«Le ho accettate come un mistero, dopotutto anche padre Pio diceva “sono un mistero a me stesso”. Condividevo la reazione umana di padre Pio, che davanti alle ferite aveva paura e si chiedeva “perché proprio a me?”».

Si sentiva più vicino al padre Pio ventenne o all’ottantenne?
«La fase matura della vita di padre Pio ha una potenza enorme, soprattutto per come ha avvicinato la gente. Interpretando il padre Pio morente mi sono reso conto del contagio di cui ancora oggi è capace e di cui io allora ero solo il mediatore. Ricordo che dopo aver girato la scena dell’ultima Messa, di cui esistono anche filmati di repertorio impressionanti, un aiuto regista che si dichiarava ateo mi disse che era rimasto profondamente turbato».

Durante le riprese lei è stato a lungo a San Giovanni Rotondo, dove il frate ha vissuto più di cinquant’anni anni e dove è morto. Quali emozioni evoca il paese?
«San Giovanni è un luogo straordinario, emana ancora il mistero e la grandezza del frate».

Nonostante il business che si è sviluppato attorno al santuario?
«Sì, e mi riferisco in particolare alla Casa sollievo della sofferenza, che è il lascito più grande del frate. Non a livello di struttura ospedaliera, che pure è molto importante per il Sud Italia, ma per il messaggio: l’uomo che basa tutta l’esistenza sulla sopportazione della sofferenza è poi anche l’uomo che costruisce un ospedale come luogo di cura dell’anima e del corpo. Un gesto rivoluzionario, anche se agli occhi di molti padre Pio tutto può sembrare fuorché un rivoluzionario».

C’è chi dice che con padre Pio il cattolicesimo rischiasse di tornare al Medioevo. Che idea si è fatto del rapporto fra padre Pio e la Chiesa?
«Padre Pio è stato molto ostacolato dalle gerarchie, i maggiori detrattori probabilmente li ha avuti proprio all’interno della Chiesa. Pensiamo ad esempio a padre Agostino Gemelli (medico, consulente del Sant’Uffizio e poi fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ndr) che definì il cappuccino un impostore. Era un “papa” che si contrapponeva all’altro papato in modo spiazzante, sorprendente, con una forza che veniva dall’immenso credito datogli dal basso. Qualche problema effettivamente l’ha creato… Non credo che altri Papi abbiano amato padre Pio come Giovanni Paolo II».

A papa Francesco la fiction su padre Pio piacerebbe?
«Diciamo che mi piacerebbe molto se la vedesse, moltissimo, sarebbe davvero una grande emozione e un grande onore. Sa invece a chi potrebbe non piacere?».

No, chi storcerebbe il naso?
«Padre Pio! Ruvido com’era, avrebbe sicuramente qualcosa da rimproverarmi».

Il 16 giugno 2002, quando padre Pio è stato proclamato santo, che effetto le ha fatto la canonizzazione?
«Vedere in piazza San Pietro l’enorme dipinto con l’effigie di padre Pio liberato dal velo è stata un’emozione fortissima, come . È stato come se in quel momento l’incontro fra il Papa polacco e il frate ruvido si fosse concluso».

Secondo la sua personale opinione, perché il frate di Pietrelcina è santo?
«È santo perché l’ha voluto il mondo, il popolo. È santo perché ha incontrato sulla sua strada un altro santo, un giovane prete polacco che sarebbe poi diventato Papa. Mi piace ricordare un aneddoto del rapporto fra padre Pio e Karol Wojtyla: la richiesta di grazia del sacerdote polacco per l’amica Wanda Poltawska e la risposta che – a quanto pare – diede il frate: “A questo non si può dire di no”. Milioni di persone hanno poggiato e tuttora poggiano in lui dolore e speranza. Padre Pio è stato ed è come un fegato: si fa attraversare e così filtra il dolore degli altri».

Lei ha interpretato anche don Lorenzo Milani, promotore di un cattolicesimo socialmente impegnato, e noto per aver ideato la Scuola di Barbiana. Quali riflessioni le hanno stimolato i due uomini?
«Padre Pio e don Milani sono due personaggi completamente diversi, probabilmente non si sarebbero nemmeno stati simpatici. Padre Pio è il contadino ruvido ma anche un mistico. Don Milani è l’ebreo, il borghese che arriva alla fede attraverso un percorso intellettuale. Eppure fra loro ho trovato anche tante somiglianze, entrambi hanno vissuto l’esperienza della sofferenza e sono stati trasformati dalla stessa fede. Grazie a loro continuo a farmi domande».

Entrambe le fiction vengono replicate spesso in televisione, soprattutto Padre Pio. Che sensazioni le dà rivedersi nei panni del frate?
«L’ultima volta mi è capitato di rivedere il film con il più piccolo dei miei quattro figli. Cesare ha sette anni, non mi aveva riconosciuto. Guardare padre Pio con lui è stato l’ultimo dono di quell’esperienza. I più grandi l’avevano già visto, ne abbiamo anche parlato come di un’opera bella, di cui essere fieri».

Quale è stata la soddisfazione più grande dell’aver interpretato padre Pio?
«L’aver smitizzato il “santino” per farne un uomo, un frate e un santo vero nella sua complessità».

Castellitto, lei crede?
«Definirei la mia fede come già disse, parlando di sé, Leonardo Mondadori (l’editore morto nel 2002, che lanciò come scrittrice Margaret Mazzantini, moglie dell’attore, ndr): credere senza appartenere. Credere negli uomini, nelle persone, nella volontà di cambiamento della Chiesa. Ed è proprio a questa Chiesa, che ha una centralità assoluta nella storia dell’uomo e che è poi anche la mia Chiesa, che chiedo di avere il coraggio di rinnovarsi, di cercare di essere sempre più all’altezza degli uomini come padre Pio, che l’hanno grandemente rappresentata».

L’arte continua a costituire una sorta di ponte verso la fede, un appello al mistero. Con questi pensieri Giovanni Paolo II nella lettera agli artisti del 1999 spiegava perché «la Chiesa ha bisogno dell’arte». È vero anche oggi?
«A questa domanda avrebbe risposto meglio Michelangelo (che nel Cinquecento affrescò la cappella Sistina in Vaticano, ndr). Penso comunque che l’arte sia sempre un gesto di speranza. E proprio perché per me il cristianesimo dovrebbe essere un’opportunità, una speranza, la Chiesa ha ancora bisogno dell’arte».

A Roma non si contano le chiese con patrimoni artistici inestimabili. C’è una chiesa a cui si sente più legato?
«Direi la cappella Sistina: ho portato tutti i miei figli a vederla. Ma la chiesa a cui sono più affezionato è quella di Cristo Re in Prati: è il luogo della mia infanzia, del calcio parrocchiale, dell’affettività, dei conflitti. Ecco, le relazioni umane per me sono l’aspetto più significativo della Chiesa, oltre all’essere sul territorio e al conoscere e riconoscere le molte facce del gregge di Dio».

Cosa direbbe padre Pio all’uomo di oggi?
«Ora et labora, prega e lavora. Dove lavorare è da intendere in senso umano, il lavorare su se stessi e sulla propria vita. Tutti dovrebbero conoscere padre Pio: credenti, atei, adulti e ragazzi. Ogni religione consegna al mondo grandi uomini, che in fondo dicono qualcosa di simile. Come madre Teresa, padre Pio è uno di loro, il suo posto è nel Pantheon dei grandi».

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