Il JRS – Servizio dei Gesuiti per i rifugiati compie 34 anni. Oggi assiste quasi 950 mila persone in 50 Paesi del mondoUn compleanno da ricordare, ma che non si può “festeggiare”: è il 34° anniversario della nascita del JRS, il Servizio dei Gesuiti per i rifugiati, nato grazie a un’intuizione dell’allora preposito generale della Compagnia di Gesù, padre Pedro Arrupe. “Avevamo sperato a lungo che questo servizio potesse non essere utile – ha commentato padre Federico Lombardi, portavoce della sala stampa della Santa Sede introducendo il colloquio “Le frontiere dell’ospitalità” che si è tenuto il 20 novembre a Roma – e invece, purtroppo, con il passare del tempo è diventato sempre più necessario”.
Oggi i programmi del JRS sono attivi in più di 50 paesi offrendo assistenza a rifugiati nei campi profughi e nelle città, a sfollati all’interno dei propri Paesi, richiedenti asilo. Secondo "stime prudenti", si calcola che oggi nel mondo i migranti forzati siano 52 milioni. Alla fine del 2013 il JRS impiegava circa 1400 tra laici, gesuiti e altri religiosi per rispondere alle esigenze in campo educativo, socio-sanitario, di assistenza di quasi 950 mila rifugiati e sfollati, senza distinzione di etnia o religione, più della metà dei quali sono donne. In Italia il JRS ha sede nel Centro Astalli di Roma, che ha assistito in un anno oltre 34 mila migranti forzati.
Un servizio che si struttura secondo tre parole chiave – accoglienza, riconciliazione, educazione – come ha spiegato il preposito generale della Compagnia di Gesù, padre Adolfo Nicolàs.
ACCOGLIENZA
L’ospitalità verso i migranti forzati è, secondo Nicolàs, “Vangelo in azione”, ma non si tratta solo di un valore cristiano, bensì umano che riconosce il diritto di ognuno ad essere accolto non perché appartenente a un gruppo, un’etnia o un credo religioso, ma semplicemente in quanto “essere umano”. L’accoglienza deve passare attraverso l’incontro personale: è l’unico modo per non avvertire l’altro “come un peso” e se i rifugiati hanno perso tutto, non hanno perso la loro umanità che è ciò che tutti dobbiamo imparare. Così come dobbiamo ricordare che tutti siamo stati dei rifugiati. “Non c’è paese al mondo – ha affermato il generale dei gesuiti ricordando, ad esempio, l’imponente Piano Marshall messo in campo dagli Stati Uniti per aiutare la ricostruzione dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale – che non abbia ricevuto aiuti da altri paesi”. Per questo occorre sollecitare i governi per realizzare società inclusive: “l’Unione europea – ha proseguito Nicolàs – non ha adottato nessun documento sull’arrivo in sicurezza di chi cerca di raggiungere l’Europa: la sicurezza dei confini prevale sulla vita delle persone, ma le frontiere non sono un valore assoluto”.
RICONCILIAZIONE
La vera sicurezza, secondo Nicolàs, a lungo missionario in Giappone, si basa sulla giustizia e la riconciliazione, un tema “urgente, non solo buono”. A rischio di sembrare “ingenui”, tuttavia la Chiesa, come afferma spesso Papa Francesco, è chiamata ad essere un “ospedale da campo” che cura le ferite là dove sono i conflitti. Il termine “frontiera” viene da “frons”, che vuole dire “volto”: riconciliare le frontiere, come fa il JRS, significa “restituire un volto a chi ha subito la violenza e anche a chi l’ha inflitta, perché la violenza disumanizza”. Il che non significa che venga legittimata l’ingiustizia: il lavoro di advocacy del JRS consiste nel ricreare “relazioni giuste” basate sulla pietà e sul coraggio di “perdonare l’imperdonabile”. Il perdono è “la porta del futuro”, tutti ne hanno bisogno perché, come dice papa Francesco, tutti siamo peccatori. Infatti, ha proseguito p. Nicolàs, raccontando un aneddoto narrato dal pontefice in un incontro con lui, la scelta di papa Francesco del motto “miserando atque eligendo” nasce proprio dal fatto che Pietro, cioè lo stesso pontefice, “ha commesso molti peccati e ciò nonostante Gesù l’ha scelto come papa”.
EDUCAZIONE
Si capisce, allora, l’importanza fondamentale dell’educazione, soprattutto dei più giovani, nell’opera dell’JRS. Chi ha meno cultura, “ha solo i pugni” per affermare le proprie ragioni: “educare l’immaginazione – ha affermato il preposito generale dei gesuiti – può ridurre la violenza”. Andare a scuola, inoltre, nelle situazioni precarie e di conflitto “ricostruisce il senso di comunità e la normalità”. Purtroppo, invece, i conflitti e le migrazioni forzate impediscono a moltissimi bambini l’accesso all’istruzione, anche nei paesi, come l’Italia, dove è un diritto formalmente assicurato. A questa difficoltà, si aggiunge spesso quella della mancata integrazione dei genitori nei paesi di accoglienza e del peso per i bambini di dover fronteggiare due culture. In tutto il mondo, ha concluso padre Nicolàs, “educare è fondamentale per uscire dalla povertà culturale che è la nostra maggiore povertà, più di quella economica”.
Il Generale dei Gesuiti: “ricordiamoci che tutti siamo stati dei rifugiati”
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