L’appello di Papa Francesco sulla giustizia incontra un dibattito già avviato tra magistrati e avvocati“Non è possibile che gli Stati non abbiano altro mezzo che la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone” e l’ergastolo come “pena di morte nascosta”: sono solo alcune delle affermazioni di Papa Francesco che il 23 ottobre, nel corso di un’udienza a una delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale ha tracciato un quadro impietoso dell’applicazione della giustizia nel mondo, – una “rete che cattura solo i pesci piccoli lasciando i grandi liberi nel mare –, invocando il ricorso alla sanzione penale come extrema ratio e denunciando condizioni di detenzione inumane e ricorso alla tortura. Un discorso potente e appassionato che ha suscitato molte reazioni tra gli appartenenti al settore e nel mondo della politica. Aleteia ha chiesto il commento di Francesco Cananzi, gip (giudice delle indagini preliminari) al Tribunale di Napoli che ha lasciato di recente per ricoprire l’incarico di membro togato del Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno dei magistrati italiani.
Il papa parla al mondo, ma diverse questioni interpellano anche l’Italia: squilibrio della carcerazione preventiva, condizioni detentive di grande sofferenza, scarso ricorso alle pene alternative…Da dove cominciamo?
Cananzi: Dalla centralità della persona che è il nucleo fondamentale di quanto affermato dal papa il quale nel suo discorso offre, peraltro, molti spunti concreti e operativi. Mettere al centro la persona significa rispettarne la dignità in ogni situazione e dare spazio al principio di speranza, cioè alla possibilità che la pena giunga ad una fine portando alla rieducazione del condannato – e soprattutto al suo reinserimento sociale – che è quanto stabilisce l’articolo 27 della nostra Costituzione.
Ma nell’ordinamento italiano esiste la pena dell’ergastolo, che Papa Francesco ha chiamato “una pena di morte nascosta”…
Cananzi: Il papa guarda a tutto il mondo e a una pluralità di sistemi giudiziari spesso molto più complessi e problematici del nostro. Nel sistema italiano esistono già dei meccanismi che rendono compatibile la pena dell’ergastolo con il fine rieducativo fissato dalla Costituzione: l’applicazione di premialità stabilite, per esempio, dalla legge Gozzini si traducono in una liberazione anticipata e di fatto eliminano il “fine pena mai” dell’ergastolo. Occorre tuttavia investire per rendere concreta l’opera di rieducazione del condannato che ha dei costi e richiede una rete a supporto della persona all’interno e all’esterno del carcere con educatori e figure professionali adeguatamente formate.
E il problema della carcerazione preventiva?
Cananzi: Si tratta di un tema delicato che chiede il bilanciamento tra il principio di proporzione nell’applicazione della misura cautelare e i pericoli che giustificano la misura stessa. Il sistema si è già indirizzato su una strada di maggior equilibrio a seguito di alcune sentenze della Corte Costituzionale che hanno rimesso alla discrezionalità del giudice e non a dei semplici automatismi l’applicazione di queste misure.
Il discorso del papa incontra quindi una riflessione già avviata all’interno del sistema giustizia?
Cananzi: Incontra un dibattito già in corso che registra un forte appello al legislatore per una selezione dei beni della vita da tutelare penalmente, operando invece una depenalizzazione rispetto a reati che potrebbero essere puniti con misure alternative o per via amministrativa. Si può fare l’esempio della falsificazione in serie dei dvd, un reato particolarmente diffuso a Napoli: la reiterazione di queste condotte rende il colpevole recidivo e impedisce l’applicazione di pene alternative al carcere. Tornare, come dice il Papa, alla pena detentiva come extrema ratio per i reati più gravi, avrebbe effetti notevoli sia sull’affollamento dei penitenziari, sia sulla possibilità per la polizia e gli inquirenti di concentrarsi sul perseguimento di condotte come la tratta delle persone o la corruzione che il pontefice definisce “un male ancora più grande del peccato”.
Quali altre situazioni intercetta il discorso di Bergoglio?
Cananzi: Papa Francesco ha affrontato il tema dei “populismi penali” e delle “pulsioni di vendetta”. Egli chiede che sia resa giustizia e non esercitata vendetta. Tutto ciò impegna gli operatori a valutare sempre meglio l’adeguatezza della pena applicata – secondo il principio di proporzionalità invocato dal pontefice –, ma allo stesso tempo riafferma la necessità di un processo che sia celebrato dai tecnici del diritto, magistrati e avvocati, e non dalle piazze. Quando il giudice emette una sentenza “in nome del popolo italiano” lo fa da tecnico che applica la legge, non seguendo il sensazionalismo dei media o l’emotività della piazza. Giustamente il papa invita a non creare dei “mostri” la cui colpevolezza è decisa prima ancora della sentenza.
E’ vero che il giudice, come afferma Papa Francesco, è un mestiere difficile, sottoposto a pressioni di varia natura, comprese quelle mediatiche?
Cananzi: Credo che i giudici italiani siano sufficientemente attrezzati per fronteggiarle. La vera difficoltà che oggi affrontano è legata alla quantità dei processi da gestire e portare a termine. L’appello di Papa Francesco ci invita a ricordare sempre che amministrare la giustizia implica autentica terzietà e una forte tensione morale oltre che un continuo aggiornamento professionale. Valutare la giusta proporzione tra pene e fatti accertati significa non dimenticare mai che dietro ai fascicoli, alle carte, ci sono sempre le persone.
In nome del popolo italiano
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