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La muffa. C’è a chi piace e a chi no

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don Marco Pozza - Sulla strada di Emmaus - pubblicato il 20/10/14
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Il Vangelo non è l’elogio del narcisismo nè la colonna sonora della depressione
Fedeli alla storia umana: senza isterismi per l’apparente ritardo del Regno di Dio e senza rassegnazione per i venti contrari che soffiano contro. Per «far conoscere tutto il bene che c’è tra noi per Cristo» (Fm 1,6). Un’espressione dell’apostolo Paolo che racchiude il senso e l’urgenza dell’Assemblea che si è celebrata ieri in Cattedrale a Padova, l’apertura ufficiale del nuovo Anno Pastorale. A qualcuno potrebbe suonare come uno dei tanti slogans dei quali è capace chi frequenta il mondo delle parrocchie e dell’associazionismo; ad altri potrebbe apparire come una forma di ingenuo ottimismo di fronte ad una storia che dentro il quotidiano mostra d’essere sempre più il campo di battaglia tra speranza e disperazione. In realtà, più che un invito rivolto al “di fuori”, potrebbe suonare un invito rivolto al “di dentro” della Chiesa stessa, della nostra Chiesa diocesana: porre fine a quei piagnistei d’inizio millennio – zeppi e zuppi di una malinconia che poco ha a che spartire con il realismo dei Vangeli – che tanto stridono con la promessa di cieli nuovi e terra nuova che si stagliano come orizzonte del popolo che appartiene a Cristo. Che dice d’essere di Cristo.

Il bene che c’è tra noi, per l’appunto. Il verbo è al tempo presente: oggi, qui, adesso, in questo frangente della storia. Non è un verbo al passato: ai tempi delle adunanze, appena dopo il Concilio, quando c’era quel Vescovo, quando le parrocchie pullulavano di gente. Gli “amarcord” – una passione mai celata (e mal celata) di una grossa fetta di Chiesa – sono gabbie che intrappolano nel passato, appesantiscono lo sguardo, compromettono il futuro. Oggi a pochi interessa sentirsi narrare quanto era bello il passato, l’indice di speranza che c’era ai tempi di Pio X, quanto funzionavano i balletti di fine estate negli oratori. Oggi ciò di cui c’è bisogno è narrare e narrarsi il bene che c’è adesso, dentro il travaglio di questa storia che è la mia storia, in mezzo ai tormenti di un millennio iniziato camminando a carponi. Solo così il Vangelo cresce e accresce, si fa strada in mezzo alle contraddizioni, illumina i passi sgomitando in mezzo alle tenebre. Il passato serve come memoria di una patria alla quale si appartiene, il futuro è necessario come spazio a disposizione: è nel presente, però, che si fa tesoro del passato e ci si organizza il futuro. Ecco perchè, come lascia trasparire Paolo nella sua lettera scelta come faro di quest’anno, o sapremo narrare la presenza di questo Bene fino a diventare pure noi Bene per altri, o non saremo. Cioè saremo destinati all’insignificanza.

Il Vangelo non è l’elogio del narcisismo; non s’azzarda nemmeno di essere la colonna sonora della depressione. Il Cristo dei Vangeli ha firmato e confermato il principio della storia, della realtà dentro la quale invita costantemente i suoi discepoli ad allenarsi al discernimento: quell’opera tanto delicata e preziosa di saper distinguere la bellezza dalla malvagità, il bene dal male, gli anticipi d’inferno da quelli di Paradiso. Continuare a ragionare e a programmare percorsi di fede senza tener conto della storia è un’occasione ghiotta per fornire materiale di studio agli psicologi e di comica riflessione ai comici e ai detrattori: non aiuta la fiducia. Cercare di decifrare il presente nei suoi aspetti contraddittori, invece, è mettere a disposizione dell’umano uno stile di speranza e di consolazione. E’ ricordarci un po’ dappertutto – sopratutto all’ombra del tanto amato campanile di paese – che oggi la vera sfida non è tanto quella di credere nell’esistenza del divino ma nel fatto che alla luce di quel Dio fattosi storia si può finalmente decidersi come essere. Perchè i sogni nel cassetto non sono poi così belli come li raccontano: chiusi là dentro fanno la muffa. I sogni vanno giocati, accettando di esporli al rischio della storia.

(da Il Mattino di Padova, 19 ottobre 2014)

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