Ha sofferto molto per la difesa della dottrina del Concilio e della fededi Salvador Aragonés
Il futuro beato Paolo VI, Giovanni Battista Montini, è stato il primo papa che ho conosciuto personalmente. Non gli piacevano i giornalisti perché era convinto che non si potessero racchiudere in un titolo o in poche righe la dottrina della Chiesa o pensieri filosofici e teologici elaborati in anni di studio. Come si può riassumere in tre paragrafi un’enciclica come la “Humanae Vitae” o la “Populorum Progressio”?
Ad ogni modo, Paolo VI aveva grande rispetto per i giornalisti e i mezzi di comunicazione, anche se non so se è arrivato ad accettare che la stragrande maggioranza della cattolicità conoscesse la dottrina della Chiesa attraverso i media. La dottrina della Chiesa non entra né in uno né in duemila tweet senza apparire ridotta o mutilata. Ricordo la sua accoglienza ai giornalisti nel gennaio 1973, quando ci disse che non dovevamo confondere Montini con Paolo VI, perché il papa quando parla come tale non emette giudizi personali, ma è ispirato dallo Spirito Santo a guidare la Chiesa universale. Il pensiero di Montini non era quello di Paolo VI. Con quanto affetto lo ha detto! Anche se ha riconosciuto che molti giornalisti non erano credenti e vedevano la Chiesa da un punto di vista unicamente umano.
Paolo VI sarà beatificato domenica 19 ottobre al termine del Sinodo sulla famiglia. È stato per molti anni nella Segreteria di Stato, fino alla sua nomina ad arcivescovo di Milano e cardinale. Ha avuto una formazione di stampo francese e ammirava soprattutto Jacques Maritain. Quando morì Giovanni XXIII era il cardinale più “papabile”, e la sua elezione non è stata una sorpresa. Il suo pontificato ha coinciso con una tappa tempestosa per la vita della Chiesa come sono i periodi post-conciliari. È stato un papa che ha sofferto molto in difesa della dottrina del Concilio e della fede. Ha dovuto sospendere “a divinis”, ovvero togliergli le funzioni sacerdotali ed episcopali, l’arcivescovo Marcel Lefebvre, che non ha accettato la dottrina del Concilio soprattutto per quanto riguarda la riforma liturgica, ritenendo che in alcuni punti era caduto in eresia. In seguito Lefebvre ha istituito la Fraternità Sacerdotale San Pio X, il papa che ha condannato il modernismo francese, al margine della comunione con la Chiesa di Roma.
È stato Paolo VI a dover far fronte all’ondata di secolarismo marxistizzante in una parte del clero in Paesi latini di Europa e America e a dover sospendere “a divinis” l’abate benedettino di San Paolo fuori le Mura, Giovanni Franzoni, diventato un militante attivo del Partito Comunista Italiano (PCI) dopo aver creato una comunità di base ed essersi sposato. Il papa ha anche affrontato i parroci guerriglieri dell’America Latina e ha espulso il francescano Leonardo Boff, promotore del movimento Cristiani per il Socialismo.
In un altro ordine di cose, Paolo VI ha affrontato lo scisma dell’Olanda, dove un gruppo di chierici e religiosi ha elaborato il cosiddetto “Catechismo olandese”, che aveva come figura insigne, accanto ad altre, il domenicano Edward Schilleebeckx. Ha nominato vescovi in Olanda contro la volontà degli apparati delle curie diocesane che volevano imporre al papa i propri candidati all’episcopato.
Ricordo il dolore con cui Paolo VI ha vissuto gran parte del suo pontificato (1963-1978) vedendo come si applicava il Concilio uscendo dall’alveo dello stesso e constatando la secolarizzazione di tanti sacerdoti e religiosi. È stato il papa che ha riconosciuto che “attraverso qualche fessura il fumo di Satana è entrato nella Chiesa”. È stato un papa criticato ma affettuoso, perché chi gli faceva visita – e chi scrive ne dà fede come giornalista – constatava che era una persona affabile, affettuosa, grande amico della libertà personale quando venne accusato del contrario. È la condanna dei papi che malgrado il loro valore personale e intellettuale non sono ben accolti dal mondo, perché la Chiesa è “segno di contraddizione”, come ha segnalato lo stesso Paolo VI nella “Humanae Vitae”.
Paolo VI è stato un papa controverso al suo tempo perché ha dovuto gestire la fine del Concilio (1965) e gli inizi del post-concilio, ed è stato un riformatore: ha riformato tutta la Curia, razionalizzandola, con la costituzione “Regimini Ecclesiae Universae” (1967), ha riformato il conclave che elegge il papa e ha applicato buona parte del Concilio nella sua prima enciclica “Ecclesiam Suam”. Ha anche difeso il celibato sacerdotale quando in un Sinodo (1971) alcuni vescovi chiedevano più flessibilità, come nelle Chiese orientali.
In campo diplomatico, Paolo VI è stato il primo a realizzare un viaggio in Terra Santa, che ha esteso il suo affetto ai cristiani separati, soprattutto agli ortodossi. È famoso l’abbraccio al patriarca ortodosso Atenagora (1964) o al patriarca copto Shenouda III. Ha lavorato senza sosta per la pace nella guerra del Vietnam cercando una soluzione attraverso la via di mezzo, ma non ha potuto impedire la vittoria dei comunisti del Viet-cong, del Vietnam del Nord, pur sapendo la sofferenza che avrebbero dovuto attraversare vescovi, sacerdoti, seminaristi e laici sotto il nuovo regime, che ha inviato molti di loro in “campi di rieducazione”. Con il suo collaboratore monsignor Agostino Casaroli ha aperto il dialogo con i Paesi comunisti dell’Est europeo, ottenendo piccoli accordi nella nomina di alcuni vescovi, e ha gestito l’espulsione del cardinal Mindszenty dall’Ungheria verso l’esilio a Vienna. A livello diplomatico è stato definito un papa dialogante.
È stato Paolo VI a mantenere il polso fermo di fronte alla dittatura spagnola del generale Franco, al quale chiese, senza ottenerla, la rinuncia al privilegio della presentazione nella nomina dei vescovi come chiedeva il Concilio nel suo decreto Christus Dominus. La tensione Chiesa-Stato in Spagna finì con la dittatura dopo la morte del generale. Dall’altro lato, ha vissuto con grande dolore l’approvazione in un referendum del cosiddetto Piccolo Divorzio in Italia (1974).
Alla fine del suo pontificato ha affrontato l’assassinio del suo grande amico Aldo Moro, democratico cristiano ex presidente del Governo, ad opera delle Brigate Rosse (maggio 1978). Il papa ha celebrato i funerali del politico nella cattedrale di San Giovanni in Laterano di Roma tre mesi prima di morire, il 6 agosto 1978.
L’ascesa di Paolo VI agli altari non dipende da ciò che ha fatto. In una causa di beatificazione si analizzano le virtù vissute personalmente, la santità personale. Ricordo che nelle ultime settimane della sua vita, secondo quanto mi hanno raccontato fonti della Segreteria di Stato, chiedeva ai suoi più stretti collaboratori, tra i quali il cardinale Segretario di Stato Jean Villot, di recitare continuamente il Rosario con lui, il che dimostra la sua grande devozione per la Vergine Maria, che ha nominato Madre della Chiesa e alla quale ha dedicato un’enciclica (Marialis Cultus). I santi che hanno avuto responsabilità di governo nella Chiesa non lo sono per aver governato bene o molto bene, ma per la santità della loro vita personale, per la loro vita esemplare.
Per terminare, un ricordo professionale incancellabile. Quando i reali di Spagna, Juan Carlos e Sofía, hanno fatto per la prima volta visita a Paolo VI (1977), sono stato scelto come il giornalista che avrebbe coperto l’evento nelle strutture vaticane per poi raccontarlo ai miei colleghi della sala stampa. Ho visto la grande affabilità di Paolo VI nei confronti dei reali. Il re ha comunicato al papa la sua determinazione a fare della Spagna un Paese democratico, il che è piaciuto molto al pontefice, anche se aveva già notizie dalla nunziatura a Madrid. Il papa ha fatto una gaffe: terminando il suo discorso ha gridato “¡Arriba España!”, che era un saluto franchista e non si adattava a un papa che aveva dimostrato di non essere affatto franchista. Ho dovuto spiegarlo, e l’espressione è stata criticata sulla stampa internazionale.
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Salvador Aragonés è stato per anni corrispondente a Roma dell’agenzia spagnola Europa Press
[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]