Dietro la lacunosità dell’etichetta un vero e proprio “cavallo di Troia”?
Il fatto che il Sinodo dei vescovi – anche nella relazione che riassume i lavori della prima settimana – insista sull’accoglienza delle persone omosessuali, menzionando pure che dal «prezioso» mutuo sostegno che due persone omosessuali si danno derivano diritti e doveri, ha portato alcuni vescovi italiani – da monsignor Mogavero al cardinale Scola, ognuno evidentemente con il suo stile e le sue idee – a intervenire con aperture di varia natura alle «unioni civili» tra persone dello stesso sesso, purché non le si chiami «matrimonio». Chi legge i giornali ha l’impressione che i vescovi, Renzi, Berlusconi ormai remino tutti nella stessa direzione. Ma non è proprio così, e un minimo di chiarezza è obbligatorio.
Comincio con il ricordare al paziente lettore che presiedo un comitato che si chiama «Sì alla famiglia» di cui fanno parte – aderendo ai suoi comitati locali – una quarantina di associazioni cattoliche e non cattoliche, le quali hanno sottoscritto un manifesto, lodato anche da diversi vescovi italiani e pubblicato sul sito del Pontificio Consiglio per la Famiglia, che pone su questa materia due paletti. Ricordando che, come insegna il «Catechismo della Chiesa Cattolica» le persone omosessuali devono essere accolte «con rispetto, compassione, delicatezza» evitando «ogni marchio di ingiusta discriminazione», abbiamo inteso chiudere le porte di «Sì alla famiglia» a chi non si riconosce nell’atteggiamento del «Catechismo» – che può essere evidentemente condiviso anche da non cattolici – e nell’invito di Papa Francesco a non giudicare le persone in quanto persone. Nello stesso tempo, affermando nel manifesto un «no» al «matrimonio» omosessuale e a «unioni civili» para-matrimoniali, che al «matrimonio» omosessuale non sono l’alternativa ma il battistrada, abbiamo pure escluso dall’ambito del nostro comitato chi sostiene che servono in Italia leggi sul modello delle «civil union» mandate in pensione in Inghilterra nel 2013 dopo avere svolto il loro lavoro, cioè appunto preparare la strada al «matrimonio» omosessuale introdotto in quell’anno.
Con poche eccezioni, nella Chiesa e – cosa meno importante, ma politicamente non irrilevante, nel centro-destra italiano – sembra che oggi tutti o quasi siano contrari al «matrimonio» omosessuale e nello stesso tempo favorevoli alle «unioni civili». Senonché, a leggere interviste e interventi, si scopre che parlando di «unioni civili» i diversi prelati e politici parlano ciascuno di una cosa diversa. Quando capita così, vuol dire che siamo di fronte a una parola insidiosa. Che cosa significa «unioni civili»? Nell’intervista a Ferruccio de Bortoli, pubblicata sul Corriere della Sera del 5 marzo 2014, Papa Francesco a una domanda su cosa pensasse delle unioni civili ha risposto: «Il matrimonio è fra un uomo e una donna. Gli Stati laici vogliono giustificare le unioni civili per regolare diverse situazioni di convivenza, spinti dall’esigenza di regolare aspetti economici fra le persone, come ad esempio assicurare l’assistenza sanitaria. Si tratta di patti di convivenza di varia natura, di cui non saprei elencare le diverse forme. Bisogna vedere i diversi casi e valutarli nella loro varietà». Premesso che un’intervista non è assolutamente Magistero, neppure ordinario, de Bortoli a differenza di Scalfari sembrerebbe non avere inventato nulla, e il testo rivela almeno la «mens» del Pontefice.
Il Papa ribadisce anzitutto che il matrimonio è solo fra un uomo e una donna, il che – almeno nella Chiesa, con poche eccezioni – non sembra essere in discussione. Quanto alle «unioni civili» il Papa ci dice in sostanza che l’espressione è come una scatola: bisogna aprirla e guardarci dentro, perché ci sono cose diverse, le «diverse forme» da esaminare e vedere una per una. Dalle convivenze – anche omosessuali – derivano diritti e doveri: il Papa parla di «aspetti economici» ma cita poi l’«assistenza sanitaria», intendendo evidentemente non l’Inps – non c’è un Inps speciale per gli omosessuali – ma la possibilità di assistere in ospedale il convivente. Come la nostra testata ha spiegato molte volte, con elenchi puntigliosi, questi diritti, in Italia, sono già garantiti dalla normativa vigente. Ne mancano solo tre: adottare bambini, avere assicurata una quota di legittima in caso di successione, e godere della pensione di reversibilità.
L’adottare bambini è una delle chiavi di tutto, ma perfino i sondaggi di Repubblica ci dicono che la maggioranza degli italiani sono contrari, per cui – una volta inserita, come vogliono Renzi e Berlusconi, la possibilità per la coppia «civilunita» di adottare i figli di uno dei due «civiluniti» – ci penseranno poi verosimilmente i giudici ad allargare l’adozione a tutti i bambini invocando il principio di uguaglianza. La legittima, se ci sono figli di uno dei due omosessuali «civiluniti», pone delicati problemi anche costituzionali. Alla pensione di reversibilità si opporrà a corpo morto l’Inps per ragioni di cassa, tanto che anche alcuni dei più attivi sostenitori delle unioni civili pensano di cassare almeno provvisoriamente la richiesta. Tutto il resto – assistenza in ospedale, in carcere, subentro nel contratto di locazione – nelle leggi italiane c’è già.
Si vuole fare un testo unico, con eventuali piccoli aggiustamenti, o creare dei contratti-tipo che i conviventi potrebbero sottoscrivere tra loro e dei quali, come di ogni contratto, lo Stato prenderebbe atto? Se ne può parlare, senza fretta e senza dimenticare per ogni passaggio gli elementi problematici. Forse è questo che intendono alcuni vescovi quando usano l’espressione «unioni civili».
Però, se diamo retta al Papa e apriamo la scatola a sorpresa della politica italiana su cui c’è scritto «unioni civili», non ci troviamo testi unici e contratti-tipo ma una cosa diversa: la «civil union» inglese che ispira il disegno di legge Cirinnà oppure la «Eingetragene Lebenspartnerschaft» in vigore in Germania di cui ora – dopo avere a lungo evocato il modello inglese – parla Renzi. Sono due modelli aperti ai soli omosessuali. La «civil union» inglese era, come abbiamo mostrato altre volte su questo giornale, una cosa uguale in tutto e per tutto al matrimonio tranne che nel nome: e il nome è stato cambiato facilmente dopo qualche anno, quando tutti si erano abituati alla cosa. Il modello tedesco originariamente non includeva le adozioni, ma per il resto è anch’esso molto simile ai matrimoni: resiste al cambiamento di nome in matrimonio per la benemerita opposizione dei democristiani bavaresi, ma non si sa per quanto. Quanto alle adozioni, ci hanno pensato – come ci penserebbero in Italia – i giudici, prima inducendo il governo a includere la possibilità di adottare il figlio biologico di uno dei partner omosessuali «civiluniti», quindi – con una sentenza del 2013, che ha portato a una modifica legislativa del 2014 – permettendo alla coppia dello stesso sesso la cosiddetta «adozione successiva», cioè l’adozione da parte di entrambi i partner del figlio già adottato da uno solo di loro. Pendono ora di fronte alla Corte Costituzionale tedesca casi che potrebbero aprire alle coppie omosessuali «civilunite» la possibilità di adottare figli senza alcuna condizione o limitazione. È vero che la Germania è più ricca di noi, ma nel 2009 i giudici hanno imposto anche lo stesso regime pensionistico per le coppie omosessuali rispetto a quelle formate da un uomo e da una donna. I nostri giudici non avrebbero di per sé bisogno dell’esempio tedesco per sapere come, una volta aperte le porte, l’attivismo giudiziario può rapidamente equiparare le «unioni civili» ai matrimoni in tutto tranne che nel nome: ma ne faranno certamente tesoro.
La cerimonia è una delle chiavi – non l’unica, ma importante, e tanto importante per i sociologi – per distinguere se si tratta di constatare che fra due persone dello stesso sesso che convivono sono stati almeno implicitamente stipulati quei «patti di convivenza» di cui parla il Papa, da cui far discendere «diritti economici», o se si vuole creare il «matrimonio» omosessuale con il nome provvisorio di «unione civile». Nulla più della cerimonia solenne identica a quella del matrimonio fra un uomo e una donna – abiti bianchi, musica, solennità, le stesse forme – diffonde nel corpo sociale l’idea che il «matrimonio» omosessuale ci sia già, per quanto lo si chiami provvisoriamente «unione civile». La legge inglese voleva la cerimonia «identica» al matrimonio, con dure sanzioni per chi sgarrava. E i progetti del Pd comprendono la cerimonia, che anzi alcuni esponenti di quel partito hanno definito la loro linea del Piave. Mi permetto d’insistere anch’io, come il Pd: non sottovalutiamo la cerimonia. Vedrete, sarà la via pedagogica italiana al «matrimonio» omosessuale.
Abbiamo dunque chiarito come sotto la dicitura «unioni civili» passano in Europa e nel mondo cose diverse. L’ambiguità dell’espressione dovrebbe indurre chi è contrario al «matrimonio» omosessuale a non usarla per indicare testi unici sui diritti e doveri delle convivenze o contratti-tipo. Tuttavia il linguaggio ha le sue dinamiche, alle quali dopo un po’ diventa molto difficile opporsi. Se l’espressione «unioni civili» diventerà di uso corrente anche tra i vescovi, ci sarà utile l’intervista del Papa a de Bortoli e il suo riferimento a diverse categorie di cose che qualcuno chiama con lo stesso nome di «unioni civili» e che vanno distinte ed esaminate una per una.
Se mi si consente di tornare al manifesto di «Sì alla famiglia», lì le associazioni firmatarie hanno incluso un «sì al riconoscimento che da ogni convivenza derivano diritti e doveri, applicando le norme in vigore che in Italia già tutelano ampiamente i conviventi, anche omosessuali, in materia di ospedali, carceri, subentro nei contratti d’affitto, ove necessario introducendo ulteriori aggiustamenti pratici di tipo amministrativo o civile». Preferiremmo che le persone bene orientate, e certamente i nostri vescovi, non chiamassero gli «aggiustamenti pratici» – compresi i testi unici e i contratti-tipo – «unioni civili», perché ogni uso dell’espressione aumenta la confusione. Sappiamo però che ci sono battaglie contro il linguaggio corrente che difficilmente possono essere vinte. Ci permettiamo allora di chiedere, ogni volta che sentiamo qualcuno ripetere «sì alle unioni civili, no al "matrimonio" omosessuale», che cosa intende esattamente per «unioni civili».
Qualcuno che ha le idee chiare c’è. Intervistato da La Stampa sul suo invito a cena in casa Berlusconi, Vladimir Luxuria ha spiegato che per lui le unioni civili alla tedesca servono a preparare la strada alla rapida introduzione in Italia del «matrimonio» omosessuale, chiamato con questo nome e con diritto illimitato all’adozione. A qualunque vescovo o politico di centro-destra che ripete il «mantra» secondo cui le unioni civili sono alternative al «matrimonio» tra persone dello stesso sesso, si ha il diritto e forse anche il dovere di chiedere se conosce bene i precedenti inglese e tedesco, e per quali ragioni le cose in Italia, una volta aperto il vaso di Pandora, dovrebbero andare diversamente dall’Inghilterra, dalla Germania, e da quanto prevede e auspica Luxuria.