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Opera di Roma: un licenziamento anche simbolico

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Emanuele D'Onofrio - Aleteia - pubblicato il 03/10/14
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La decisione di smantellare coro e orchestra per “salvare” l’ente lirico romano è un segnale chiaro quanto paradossale.

In una delle favole più cupe e intriganti dei fratelli Grimm, l’ingordo quanto inaffidabile re di Hamelin si rifiutava di pagare quanto promesso al pifferaio che con il suono del suo strumento aveva liberato la città dai topi. Per punizione, il suono del piffero avrebbe poi “rapito” i bambini di Hamelin, le cui case e le strade sarebbero piombate in un malinconico silenzio.

Anche a Roma, da ieri, c’è silenzio. E la colpa è, anche qui, di istituzioni inaffidabili e sicuramente incapaci di gestire, visti i ripetuti buchi di bilancio, l’arte lirica nella capitale e non solo. Il piano del Cda dell’Opera di Roma è semplice: far rinascere il teatro lirico che affoga nei debiti dismettendo la sua orchestra e il suo coro stabili come un’impresa edile potrebbe fare con un capannone. Sono 182 su 460 le persone, in pratica tutti gli artisti, mandate a casa per risparmiare secondo le stime presentate dal sovrintendente Carlo Fuortes 3,4 milioni di entrate. Il sindaco Ignazio Marino, che ha presentato l’iniziativa nei termini di una grande opportunità parlando di “un percorso mai eseguito prima nel nostro Paese”, ha dato la colpa al calo degli incassi da abbonamenti e da sponsor, crollati dopo la dolorosa e rumorosa “fuga” di Riccardo Muti, e ad un bilancio da risanare. E il futuro? Gli artisti allontanati non devono in fondo preoccuparsi troppo secondo Fuortes, perché “se si organizza tutto nel migliore dei modi dal 1 gennaio il teatro dell’Opera potrebbe aver nuova orchestra e coro che potrebbero essere anche costituiti dai vecchi musicisti, però con una forma contrattuale del tutto diversa: non sarebbero più dipendenti ma sarebbero loro a formare un’orchestra e un coro indipendente” (da Ansa.it). Insomma il modello della London Symphony Orchestra o dei Berliner Philarmoniker, senza però essere in Inghilterra o in Germania dove la flessibilità del mercato del lavoro e altre forme di tutele – oltre ad un mercato lirico assai più florido – offrono al lavoratore anche i vantaggi della sua situazione precaria. Un po’ come con il precariato giovanile, che offre “mobilità” alle aziende nei confronti dei loro dipendenti senza garantire elasticità finanziaria ai giovani che ad esempio si rivolgono alle banche per chiedere un mutuo.

Come dire, che i giovani e gli orchestrali sperimentino pure “le opportunità” e la flessibilità gli anni Duemila, e che le banche e le istituzioni pubbliche continuino a nuotare nella dorata e protetta rigidità del mercato del lavoro degli anni Ottanta. Un piccolo dubbio s’affaccia: che coro e orchestra stiano pagando le lotte sindacali di questi anni? In attesa di una risposta, noi di Aleteia abbiamo chiesto un commento su quanto accaduto al professor Nicola Tangari, docente di Musicologia presso Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma.

Quali riflessioni le suscita questa decisione del Cda dell’Opera di Roma?
Tangari: La cosa che si può dire è la seguente: l’arte, tutta l’arte, si fa con le persone. A maggior ragione questo vale per il teatro così come per il cinema, che sono entrambe imprese collettive, cioè fatte da tante persone che insieme si riuniscono per un unico obiettivo, quello della rappresentazione. Queste persone sono gli artisti stessi, coloro che realizzano lo spettacolo. Dunque allontanare gli artisti dal teatro è una contraddizione in termini. Se si sceglie di allontanare gli artisti dal teatro si crea una disgregazione, uno scollamento di quella che può essere l’istituzione teatrale. Pensare, com’è stato dichiarato, che si possa far fare il teatro dell’opera soltanto attraverso l’allontanamento degli artisti è non è davvero possibile.

Da dove nascono i problemi del teatro lirico in Italia?
Tangari: Non si può pensare di fare teatro se non c’è un supporto economico. Quando manca il supporto economico l’arte teatrale, sia la prosa che il teatro musicale, non si può realizzare. Questa è un’impresa talmente grande nella sua organizzazione che necessita di un sostegno economico forte. È stato sempre così. La produzione musicale e quella del teatro musicale hanno implicite in loro un senso dell’imprenditorialità, cioè la possibilità di andare avanti attraverso un sostegno economico. Su questo non ci sono dubbi. Se l’arte teatrale oggi non riesce ad essere autosufficiente è perché fondamentalmente il teatro musicale si sente lontano dalla sensibilità comune, ma questo avviene perché la società in Italia non è aiutata ad avere una sensibilità verso il teatro musicale. Nei fatti manca del tutto un’istruzione di natura musicale fin dall’infanzia; manca da parte delle istituzioni qualsiasi possibilità per le giovani generazioni di poter costruire una certa competenza musicale di base che consenta poi loro di poter essere sensibili verso la bellezza del teatro musicale. Questo è il problema vero. Anche in questo caso, se non si fornisce un sopporto all’educazione musicale dei giovani e invece si toglie il supporto economico ai teatri addirittura mandando via gli artisti, è chiaro che siamo di fronte ad una politica del tutto contraria ad un rilancio del teatro musicale.

Oltre a quelle, ovvie direi, delle istituzioni, c’è anche qualche responsabilità in chi fa teatro se non si è imposto un modello economico diverso?
Tangari: La domanda è complessa. Responsabilità ce ne sono da tutte le parti, ovviamente. Sicuramente se ci fosse una risposta forte da parte del pubblico molte di queste difficoltà scomparirebbero. La risposta forte da parte del pubblico non c’è perché non c’è una sensibilità nei confronti di queste manifestazioni artistiche. Questa sensibilità, però, la puoi sviluppare soltanto attraverso un’istruzione di base e creando la competenza di base nelle giovani generazioni. Io sono convinto di questo. Poi è chiaro che le istituzioni pubbliche hanno il dovere di sostenere determinate iniziative culturali, perché questo fa parte delle responsabilità civili delle istituzioni pubbliche: vanno sostenute la scuola e l’università, così anche i musei e i teatri d’opera. Fa parte dei loro compiti istituzionali fondamentali.

Quanto è vasta la crisi della lirica in Italia?
Tangari: Che ci sia una crisi generale di tutte le istituzioni liriche in Italia è evidente. Alcuni punti sono da sottolineare, secondo me: se solo si pensa, anche senza dirlo, che questa è una forma d’arte ormai superata, che non raccoglie più il favore del pubblico, questa è una falsità. Lo è perché il pubblico, specie nelle fasce più giovani, è molto sensibile alla bellezza, se solo gli si desse l’opportunità di poterla gustare. Ma questo si può fare solo con l’istruzione, e certamente non allontanando gli artisti da un’istituzione culturale storica come può essere il Teatro dell’Opera di Roma. Si possono portar via le suppellettili, ma non si possono allontanare gli artisti. È proprio una contraddizione. Chi lo fa il teatro se allontani gli artisti? Certo, ci sono vaghe ipotesi di riassumerli, ma intanto questo è un atto formale fortissimo. È un segnale che ha un suo significato simbolico molto chiaro: allontanare gli artisti dal teatro. Vuol dire che tu non vuoi il teatro. Non è solo un fatto burocratico tecnico economico, ha una valenza simbolica evidente.

E la lirica è viva negli altri paesi?
Tangari: Io posso dire questo: oramai le classi di canto dei conservatori sono piene di studenti dell’Estremo Oriente, i quali pur provenendo da una cultura completamente diversa da quella europea vengono in Italia a studiare il canto lirico. C’è tutta una generazione di giovani cantanti lirici dell’Estremo Oriente – Cina, Giappone, Corea, Taiwan e così via  – che vogliono imparare a cantare, che lo fanno e tornano in patria a riempire i loro teatri. I teatri laggiù sono sempre pieni di gente che vuole ascoltare le opere della tradizione lirica italiana: soprattutto Rossini, Verdi, Puccini, sono questi gli autori più amati.

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