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Economia e teologia, la nuova alleanza

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Emanuele D'Onofrio - Aleteia - pubblicato il 03/10/14
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A Torino sta per aprirsi una conferenza dove economisti e teologi si confronteranno sulle cause della crisi attuale, sulle risposte del presente e sui modelli possibili del futuro
In tempi di crisi, certezze e strategie tornano sempre in discussione, e occorre sperimentare nuovi punti di osservazione sulle cose. Tanto più questo vale per le difficoltà economiche di questo tempo, che non sembrano abbandonare le nostre società occidentali.  Il 6 e 7 ottobre prossimi a Torino, presso il Salone della Casa Valdese di Torino si terrà il Convegno Internazionale “Economia e Teologia. Per una visione economica solidale” promosso dagli enti torinesi Centro Teologico, Centro Evangelico di Cultura “Arturo Pascal” e Centro Studi Filosofico-religiosi “Luigi Pareyson” con il contributo dell’otto per mille della Chiesa Valdese. Questa rassegna interdisciplinare sarà l’occasione per ripercorrere le strade dell’economia che ci hanno condotto fino ad oggi, e di farlo insieme ad una compagna di viaggio imprevista, la teologia, che potrà offrire nuovi spunti critici e suggerimenti. La prima giornata sarà dedicata ad approfondire le teorie economiche più in voga negli ultimi decenni, mentre la seconda darà voce a teologi e a possibili nuove analisi e soluzioni, indicate soprattutto nella Teologia della Liberazione. Aleteia ha intervistato il professor Riccardo Bellofiore, economista e docente presso l’Università degli Studi di Bergamo, che nel suo contributo alla conferenza si occuperà di raccontare origini e crisi del Neoliberismo.
 
In che stato è il Neoliberismo oggi?
Bellofiore: La domanda è più che sensata, ma la risposta è complicata. Da un certo punto di vista si è tentati di rispondere che il neoliberismo è morto, se per neoliberismo intendiamo quella configurazione economica e sociale che si è costituita dall’inizio degli anni Ottanta e della quale la grande crisi degli ultimi anni può essere letta come il crollo. Il premio Nobel Joseph Stiglitz ha sostenuto che la crisi del 2007-2008 è stata per il capitalismo neoliberista quello che è stato il crollo del Muro di Berlino nel 1989, la fine di un mondo. A rendere tutto più complicato è il fatto che il nuovo mondo non si è visto, e chi gestisce la crisi del neoliberismo sono in qualche modo gli stessi neoliberisti. Viviamo in un mondo in cui, per utilizzare un immagine di un politologo anglosassone, il neoliberismo è morto ma ha assunto la forma di un morto vivente. Il neoliberismo si era caratterizzato sempre di più come un mondo fatto di un rincorrersi di bolle speculative, prima su obbligazioni, poi su azioni e infine sull’immobiliare; queste erano state in grado di trainare seppur in modo perverso l’economia reale. Le bolle non sono scomparse, e questo effetto di traino sull’economia reale non si è visto. Non solo in Europa, che ha problemi suoi, ma anche negli stessi Stati Uniti in realtà la ripresa se c’è è molto sfuggente. Siamo in una terra di nessuno.

Come nasce il neoliberismo?
Bellofiore: Per capire il neoliberalismo bisogna capire come s’è evoluta l’economia capitalista. Le categorie che io impiego sono categorie di origine marxiana e di origine keynesiana, cercano di comprendere la novità di questa fame capitalistica e all’interno di questa novità capire dove ci sia stato un crollo. La mia idea è che il neoliberismo sia nato negli anni Ottanta sotto un’egida “monetarista”, nell’idea cioè che un controllo rigido della quantità di moneta aiutasse ad uscire dai problemi degli anni Sessanta, cioè l’inflazione e la stagnazione. Di norma il neoliberismo viene inteso come una sorta di accoppiata tra questo monetarismo e il ritorno al “lasciar fare”, il ritorno al libero mercato. Io devo dire che sinceramente non credo che questa sia l’origine del neoliberismo. Credo che dal 1982 in poi le cose siano molto cambiate. Credo che l’esperimento monetarista sia crollato e sia stato sostituito da “altro”. Questo “altro” è stato prima il secondo mandato di Regan, il quale ha risolto la stagnazione con una sorta di keynesimo militare: ha aumentato la spesa pubblica, infatti, al di là di ogni retorica. Questo ha condotto non solo a un disavanzo del bilancio dello stato americano, ma anche ad un disavanzo di rapporti con l’estero, dato che gli  stati Uniti sono diventati un grande importatore. Poi è venuta la fase più interessante, quella che alcuni economisti e politologi chiamano un po’ paradossalmente il “keynesismo privatizzato”: cioè, in un mondo in cui non c’è più il traino della spesa pubblica, gli investimenti tiravano fino ad un certo punto, ovviamente i salari cadevano e quindi la domanda e i consumi da reddito non riuscivano ad essere trainato, c’è stata una vera invenzione geniale del neoliberismo, che è stata il consumo a debito.
Le bolle speculative di cui parlavo prima hanno fatto sì che il valore cumulato dei risparmi andasse verso l’alto, che fosse possibile per la classe media indebitarsi: a fronte di questo “capitale cartaceo” che cresceva, le famiglie povere sono state anche loro via via incluse in questo mondo del debito, e c’è stata questa commistione tra finanza e consumo a debito. Questo è stato il modello anglosassone. Gli altri modelli erano quelli cosiddetti neomercantilisti, che esportavano verso chi era in grado di assorbire le merci.

Questo ha garantito stabilità?
Bellofiore: Questo mondo in apparenza era stabilissimo, però nascondeva sotto il tappeto un’instabilità compressa che poi ne ha mostrato l’insostenibilità. Per la verità quella insostenibilità la si è vista varie volte nel corso degli ultimi 30 anni, però la prima vera crisi è stata quella del 2002, dopo il boom delle azioni sui mercati americani. Poi la grande crisi si è prodotta nel cosiddetto “mercato dei subprime”. La finanza cattiva è stata quella che ha consentito la crescita reale nelle aree che più si espandevano e tutti quanti hanno cercato di imitare il modello statunitense, proprio come ora in Europa si cerca di imitare il modello tedesco per quanto riguarda l’aspetto neomercantilista. Quindi la crisi è iniziata come finanziaria, ma era anche di economia reale. Non era una crisi perché mancava la domanda: la domanda c’era, c’era domanda di consumi. Appena la crisi finanziaria è esplosa, questo consumo a reddito è crollato.

Perché lo chiamano keynesismo privatizzato?
Bellofiore: Perché questo mondo si reggeva su una politica, che però favoriva gli interessi privati. A questo mondo è corrisposto sul terreno della struttura industriale e dei rapporti di lavoro la realtà delle imprese a rete e del lavoro che in alcune fasi è molto precario. Quando questo meccanismo esplode, il problema è: cosa proporre di alternativo? Ora io non sono molto convinto dalla validità delle tesi etiche o di economia di comunione, perché per me il problema è da un lato il capitale, il controllo delle dinamiche capitalistiche, e dall’altro lato il fatto che si debba contrapporre un diverso modello sociale economico. Ritengo che bisogna tornare ad un primato della spesa pubblica, ma questo primato deve essere molto diverso da quello che abbiamo vissuto nella fase keynesiana (1945-1975), perché allora ad essere trainante era la spesa militare e la spesa generica. Oggi noi abbiamo bisogno di qualcosa che assomiglia ad una versione molto riveduta e corretta del “new deal”, cioè dello Stato che deve intervenire molto e direttamente nella composizione della produzione, si potrebbe dire, dei valori d’uso sociali che vengono prodotti; abbiamo bisogno di uno stato che direttamente si faccia carico del problema dell’occupazione; infine, oltre ad una socializzazione degli investimenti e ad una socializzazione del lavoro, ci vuole una socializzazione della finanza. Questo mondo del neoliberismo è stato organizzato sullo smantellamento di tutte le forme di controllo sulle banche sulla finanza. Una nuova proposta non può che proporsi a questo livello. La mia, in fondo, è anche una critica a quelle analisi che concentrano troppo l’attenzione sul problema dell’insufficienza di domanda e della diseguaglianza. Non che io non pensi che questi siano problemi enormi, che l’austerità vada invertita, che la compressione della spesa pubblica vada controbattuta; ma penso che lo Stato debba intervenire in prima persona, e che il mondo deve essere diverso da quello che abbiamo conosciuto. Un mondo che ha bisogno di una risposta “socialista” alla crisi del capitalismo. Ora questo sembra molto complicato oggi; ma pensiamo agli anni Trenta, Keynes cercando delle soluzioni non si limitò a proporre un piccolo cambiamento, ha proposto una rivoluzione del pensiero e della struttura. Non vogliamo chiamarlo socialismo? Chiamiamolo in altro modo, ma c’è bisogno di una politica che intervenga direttamente nell’indirizzare il cosa, il come e il quanto si produce. 

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