Il Vangelo è una vigna: tralci, potature e innesti. Un vignaiolo e dei fattori, prima di tutto
Col profumo del mosto nell’aria e il fracasso delle ruote di carri sul selciato della piazzetta. Eppoi botti e pigiatura, grappoli e sorrisi, baldanza e tintinnare di bicchieri: benvenuto al vino nuovo. Settembre è mese di transumanza e di vendemmia: del sudore che diventa pane, della fatica che si tramuta in latte, della stanchezza velata di raccolti. Della terra che torna ad essere madre di sorrisi: «è ora che il succo riposi abbastanza, al vino novello il tempo di un mese, è già cominciata la festa in paese» (M. Morellato). Cin cin!
Il Vangelo profuma di gigli e di granoturco, abita la terra e lambisce i laghi, spazia dalla pianura dei pani alle colline della Beatitudine. Il Vangelo è una vigna: tralci, potature e innesti. Un vignaiolo e dei fattori, prima di tutto: «Figlio, oggi va’ a lavorare nella mia vigna» (liturgia della XXVI^ domenica del tempo ordinario). In tempo di vendemmia le forze devono quadruplicare: capita che in talune giornate il Padrone altro non faccia che uscire continuamente sulla piazza a cercare forze nuove, a reclutare manovalanza, a rafforzare quelle mani: alle nove e a mezzogiorno, anche alle tre del pomeriggio se serve. Di più: fino alle cinque, poco prima del tramonto. Anche un’ora di lavoro in quella vigna è gradita chi di vendemmia se ne intende; a chi di disoccupazione si rattrista. Poi nella vigna c’è chi dice di andarci – «Sì, signore» – ma non ci andrà mai e chi invece giura di non volerci proprio andare – «Non ne ho voglia» – ma poi tra i filari ritrova la gaiezza di un mestiere che produce gioia e spensieratezza nel cuore. Mica è questione di mala gestione del personale: è che in quella vigna ognuno ci va con un’idea diversa del suo padrone. C’è chi forse ha paura di dire di no – “non vorrai mica dare un dispiacere a Dio?”, “se non preghi Dio non ti aiuta”, “chiedigli subito scusa” – e ci va a lavorare: col muso lungo, col fastidio addosso, con quella dolce lamentela di sottofondo ch’è il risultato di un lavoro odioso, forse odiato, certamente non amato. E c’è chi, invece, di andare a lavorare proprio non ne vuol sapere. Glielo dice al padrone: guardandolo negli occhi, forzandolo col tono della voce, senza mascherare il fastidio di un mestiere che non s’abbina alle corde del cuore.
Tra la stalla – ch’era forse una piccola casa o un rispettoso abitare – e la vigna, mutano però i pensieri: «Chi se n’è andato, a volte lo ha fatto per ragioni che, se ben comprese e valutate, possono portare ad un ritorno. Ma ci vuole audacia, coraggio: camminare nella notte con loro, scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi» (Francesco, Evangeli gaudium). Chi s’era fatto bello e pronto in realtà non ci va più: la bella figura è bastata per rendersi gradevole agli occhi del padrone. Chi invece aveva giurato che in quella vigna non c’avrebbe messo piedi, ci pensa e si mette a lavorare il vigneto.
Immagina, forse, quel lavoro in modo diverso: quel pezzo di vigna non è più solo del padrone ma è anche sua. Quel Padre non è un padrone al quale chinarsi e poi “schiena bassa e lavorare” ma un uomo che offre la libertà: di andarci, di non andarci, di dire anche di no. Di sbattergli la porta in faccia. Chi varca quel cancello, appena dietro le ceste pronte ad essere riempite, avverte subito l’eco di una Novella che è buona anche solo a sentirsi: non ci sarà mai gioia senza la libertà. La libertà di un no, di una ribellione, di un perdersi per poi ritrovarsi. Com’è di tutte le storie d’amore: «Certi amori non muoiono mai: fanno dei giri immensi e poi ritornano» (A. Venditti). Le storie d’amore dei poveri, quelle che nascono ai margini delle città. Le storie di fastidio che diventano quelle preferite dal Cielo: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno dei Cieli».
“Di me le dirò che io sono figlio del mio secolo, figlio della miscredenza e del dubbio, e non solo fino ad oggi, ma tale resterò (lo so con certezza) fino alla tomba. Quali terribili sofferenze mi è costata – e mi costa tuttora – questa sete di credere, che tanto più fortemente si fa sentire nella mia anima quanto più forti appaiono gli argomenti a essi contrari! Ciò nonostante Iddio mi manda sereno talora degli istanti in cui mi sento perfettamente sereno; in quegli istanti io scopro di amare e di essere amato dagli altri, e appunto in quegli istanti io ho concepito un simbolo della fede, un Credo, in cui tutto per me è chiaro e santo. Questo Credo è molto semplice e suona così: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più simpatico, di più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c’è, ma addirittura, con geloso amore mi dico che non ci può essere. Non solo, ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità” (F. Dostoevskij,
Lettere sulla creatività)
Punto e a capo. Tanto per mettere le cose in chiaro tra i filari di quella vigna: niente servi ossequienti, bando agli inchini e alle riverenze di facciata. Poco spazio per un’obbedienza sterile che non attecchisce nel senso più botanico del termine. Meglio la ribellione e il fastidio, quel no sbattuto in faccia a Dio che, in realtà, è una forma mascherata di nostalgia: di voglia di ritornare a casa, di ritrovarLo, di ritrovarsi. Quella casa che nel Vangelo non è questione di mura e d’arredamento ma rimane lo spazio degli affetti, dell’intimità. Della memoria e dell’attenzione. Di un Dio che non chiede affatto d’umiliarsi in fronte a Lui, ma di rimanere uomini liberi: in piedi. Per poter essere uomini veri.