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Israele-Palestina: “Noi donne per la riconciliazione, nonostante tutto”

ASFOUR at Lakyia No.002

Adi Gil, Gabi Asfour and Angela Donhauser, the members of multicultural U.S. based fashion designers collective known as Three ASFOUR visited three NGOs in the Bedouin village of Laqyia, located in the Negev desert in southern Israel: “Sidreh Laqyia Weaving”, “Desert Embroidery” and “Accessoir”. These NGOs empower local women though traditional crafts. The U.S. designers were amazed by the creativity and professionalism of the women, their strong commitment to the goal of promoting women’s rights in Bedouin society, and by their traditional warm hospitality. The designers also gave a presentation about their work, answered questions and explored ways of possible cooperation with Laqyia women. ThreeASFOUR’s latest collection “InSalaam InShallom”, which is based on the harmonious combination of Jewish and Arab visual sources, is currently on display in the Beit Ha’Ir Museum in Tel Aviv. The project is supported and facilitated by the U.S. Embassy Tel Aviv.

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Popoli - pubblicato il 29/09/14
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Ebrea ortodossa e araba cristiana raccontano il loro punto di vista sulla tragica estate di guerra in Israele e Gaza

di Stefano Femminis

Hedva Goldschmidt è un’ebrea ortodossa, 
vive a Gerusalemme dove lavora nel settore della distribuzione cinematografica. Ha fondato 
Go2Films, il cui scopo è quello di ampliare l’obiettivo sulla società israeliana attraverso i film, esplorando la pluralità della società israeliana, nei suoi aspetti umani, culturali e religiosi.

 
Anche Nuha Farran vive a Gerusalemme: è un’araba cristiana, mamma di due ragazzi – un maschio e una femmina -, e da più di vent’anni è impegnata nel progetto 
Jerusalem International Ymca, un’organizzazione conosciuta per il suo lavoro a favore della pace, della tolleranza e della convivenza tra comunità diverse a Gerusalemme (nel 1993 Ymca è stata candidata al Nobel per la Pace).
 
Qualche anno fa, Lia Giovanazzi Beltrami, allora assessore alle Solidarietà internazionale nella Provincia autonoma di Trento, ha chiesto a Hedva e Nuha di far parte di gruppo di cinque donne di nazionalità israeliana, provenienti da contesti differenti e appartenenti a confessioni religiose diverse, con lo scopo di realizzare una conferenza sul Medio Oriente in Italia. La sorprendente accoglienza che ebbe quell’iniziativa e lo stretto legame che si è creato fra le cinque donne, ha portato a un’altra conferenza e poi a un evento a Gerusalemme lo scorso novembre, intitolato «Dreams or Reality: Women of Faith for Peace». Di quell’evento abbiamo parlato su 
Popoli
nel numero di maggio 2014. Qui abbiamo chiesto a Hedva e a Nuha di raccontarci il loro punto di vista sulla tragica estate di guerra in Israele e Gaza.
 
Cosa pensa dei tragici fatti di questi mesi?

 
Hedva
 – Siamo tutti in guerra contro il terrore, rappresentato da Hamas, che è responsabile della distruzione e dell’uccisione dei cittadini di Gaza. Sono molto addolorata per i giovani soldati israeliani uccisi per difendere noi cittadini, lasciando giovani mogli incinte e bambini piccoli che non avranno più un padre. Sento lo stesso dolore per le donne e i bambini di Gaza, e per tutte le persone innocenti che sono stati uccise in queste settimane, e disprezzo Hamas perché spesso usa queste persone come scudi umani. Come credente ebrea credo che ogni essere umano è stato creato a immagine di Dio. Come madre, penso sia nostro compito formare entrambe le parti a rifiutare la violenza e l’uccisione di bambini innocenti, educare a comprendere e amare l’altro, non a odiare. Possono esserci conflitti, è normale, ma li possiamo risolvere con il dialogo. 
Penso che ebrei ed arabi dovrebbero unirsi contro la violenza, contro il razzismo da entrambe le parti, e contro Hamas. Questo pur avendo opinioni politiche diverse e usando tutte le vie legali per un cambiamento. Dal momento che io non sono un politico, l’unico piccolo strumento che ho a disposizione è l’istruzione. Sto iniziando in casa mia, insegnando ai miei figli la tolleranza e l’amore per l’altro.
 
Nuha
 – Quando parlo della situazione in Terra santa, prendo in prestito da mio suocero questa analogia: mi sento come una bambina dilaniata da due genitori in lotta. L’israeliano è mio padre e il palestinese mia madre e io, come una bambina, posso solo sedermi in un angolo e piangere di dolore e di paura. So che c’è un’eco di disperazione e di impotenza in questa metafora; tuttavia, sinceramente io mi sento proprio così. Penso sia assurdo che le persone litighino pur sapendo che, alla fine della giornata, si incontreranno per parlare e cercare di risolvere le cose… È assurdo che così tanto denaro sia investito in guerra e in odio anziché nella pace… È un peccato che, piuttosto che guardare al positivo, siamo sempre costretti a concentrarci sul negativo.

 
In questi anni di conflitto, ha mai avuto contatti "diretti" con la guerra?

 
Hedva – Tre miei amici sono stati uccisi in attacchi terroristici contro gli israeliani. Tamar morì per un’esplosione su un bus, si era appena sposata ed era incinta. Il mio amico d’infanzia Yaron è stato ucciso insieme alla moglie in auto: il loro bambino, che era in macchina, è sopravvissuto. Noam, che era quasi un fratello per me, è stato ucciso il giorno prima del mio matrimonio, vent’anni fa, e mi ricordo di lui tutti i giorni. 
Lo scorso anno mia sorella è stata aggredita da quattro terroristi nella sua auto insieme alla figlia di 8 anni, è riuscita a fuggire solo all’ultimo momento. Abbiamo poi saputo che il piano era di rapirle e ucciderle. Il fratello di mia cognata non ha avuto la stessa fortuna ed è stato assassinato all’età di 15 anni, saltando in aria insieme a un terrorista suicida, durante una festa con gli amici.
Nell’operazione di luglio, un soldato del mio quartiere è stato ucciso e stiamo cercando di aiutare la sua famiglia molto povera, mentre un altro caduto è figlio di un amico di infanzia di mio marito. 
Siamo un Paese piccolo e unito, e ogni persona ha le sue vittime e i suoi ricordi traumatici legati alla guerra e al terrore. Quello che hanno di speciale gli israeliani è la loro capacità di prendersi cura gli uni degli altri nei momenti di dolore. Non ti senti mai solo. 
Sento che siamo forti, e non abbiamo un altro Paese dove andare. Israele è la patria del popolo ebraico, ma sono pronta a condividere questo piccolo pezzo di terra con tutti quelli che si accordano per una pace reale, riconoscendo il mio diritto di vivere qui. Io spero davvero che possiamo educare la prossima generazione al fatto che possiamo vivere insieme.
 
Nuha – È difficile dire di no quando sei nata dentro il conflitto, la nostra vita è piena di conflitti, la nostra realtà è complessa e multiforme, ora più che mai. Un paio di anni fa, io e la mia famiglia abbiamo dovuto cambiare casa perché avevamo ricevuto da alcuni estremisti ebrei un 
"tag mekhir" (espressione ebraica, in inglese 
price tag, per indicare le scritte vandaliche che sempre più spesso appaiono sui muri di Gerusalemme, specie per minacciare i cristiani, 
ndt). Odio raccontare questo incidente, in quanto ha avuto luogo nel quartiere in cui sono cresciuta, sentendomi sempre al sicuro (è uno dei quartieri più vivaci di Gerusalemme). Non riesco ancora ad accettare questa cosa, e spesso durante i giorni di tensione, come nell’ultimo periodo, mi sento insicura e minacciata. 
 
Quando esplode una nuova crisi non ha la sensazione che tutti gli sforzi e i progetti di pace – incluso quello di cui fa parte – siano inutili?


Hedva – No, non sono d’accordo. Avere amici con opinioni così diverse, ma che restano amici, mi permette di fare due cose: essere più sensibile e capace di ascoltare quelli che sono sull’altro fronte; commentare quando non sono d’accordo e condividere pensieri su cui forse alcuni dei miei amici non sono d’accordo: ma loro sanno che questi pensieri vengono da me, sanno chi sono e li ascoltano in un modo diverso.
 
Nuha – Io sono una combattente, mi batto per ciò in cui credo, altrimenti non sarei rimasta in Terra santa quando avevo altre opportunità all’estero. Sono un essere umano normale, che si sente frustrata quando scoppiano le guerre. Ma dentro di me c’è un angolo che tiene sempre accesa una luce più forte di ogni frustrazione, una forza interiore che mi spinge a continuare in ciò che ho iniziato, a continuare a seminare valori in una comunità e in un mondo che li ha persi quasi tutti, in particolare il rispetto. 

 
Il conflitto israelo-palestinese dura ormai da quasi 70 anni: chi sono a suo parere i principali responsabili di questa situazione?


Hedva – È una domanda molto difficile e non sono sicura di avere la risposta. Posso dire il mio punto di vista personale. Sarei pronta a lasciare il mio bellissimo appartamento, se qualcuno mi promettesse una pace sicura. Il problema principale è che non abbiamo più fiducia, e abbiamo bisogno di costruire relazioni di fiducia con l’altro «lato». Israele ha consegnato ai palestinesi la Striscia di Gaza nel 2005, e il risultato non è stata la pace, ma più razzi e tunnel del terrore costruiti sotto case e sinagoghe distrutte. Abbiamo bisogno di avere partner forti e affidabili dall’altra parte. Il fatto che ci siano ancora organizzazioni terroristiche che non hanno riconosciuto il mio diritto a vivere qui, come io riconosco il diritto degli arabi a stare qui, è un altro problema. 
Credo ci sia anche una responsabilità dei sistemi educativi che insegnano ai ragazzi palestinesi a diventare 
shahid
 (martiri, 
ndt
) e a uccidere gli ebrei, e dall’altro lato, ebrei che insegnano ai loro figli che ogni arabo è un nemico. 
Penso infine che i media europei dovrebbero essere molto più attenti, cercando sempre di vedere le ragioni di entrambi i contendenti e di dare visibilità alle persone che cercano la pace (e ce ne sono tante), anziché presentare solo gli estremisti di entrambe le parti. 
 
Nuha – Non sono sicura di poter dare una risposta a una domanda su cui tutto il mondo discute da 70 anni. Però il mio istinto mi dice che l’Occidente, dopo la prima guerra mondiale, ha svolto un ruolo nella creazione di questo conflitto. 
 
Che cosa risponde a chi, tanto fra gli ebrei quanto fra i palestinesi, accusa di tradimento coloro che promuovono il dialogo e la riconciliazione? 


Hedva – Penso che durante la guerra, quando i soldati, figli di familiari e amici, stanno combattendo e sono in pericolo, è il momento di essere uniti nella preghiera: non è il momento di accusare altri israeliani che la pensano diversamente, ma non è nemmeno il momento per manifestare contro il governo democraticamente eletto di Israele. In questa situazione drammatica, io chiedo sempre a tutte le persone di non dividere le cose in bianco e nero, ma di fare sforzi, di vedere il grigio, di vedere le vittime e il dolore delle persone che sono dall’altra parte. Chiedo alle persone di sviluppare dibattiti rispettosi, non di utilizzare il razzismo, le cattive parole, o di mostrare foto di bambini morti solo per accendere gli animi. Chiedo di mantenere viva la speranza, e c’è ancora speranza finché ci sono tante brave persone in questa terra, come la mia cara amica Nuha Faran.
 
Nuha – La stessa cosa viene detta oggi agli ebrei che credono nella pace e nella riconciliazione in Israele. Se restiamo in silenzio, allora stiamo accettando l’idea che non c’è miglior luogo del conflitto e della guerra, lasceremo il palcoscenico agli estremisti che sono contro tutto e tutti. Dobbiamo smettere di vivere con gli slogan e iniziare a essere concreti: la vita è troppo breve per essere vissuta in guerra. 
 
L’ultima domanda è solo per Nuha: le abbiamo chiesto come la comunità cristiana in Terra santa sta vivendo questa situazione.

Penso che questa sia la guerra peggiore per la comunità cristiana. Non sono sicura di riuscire a descrivere quanto sia complesso e complicato essere cristiani in Terra santa. Siamo soli e abbandonati da tutto il mondo, che persegue altri interessi. Penso anche alla minaccia rappresentata dai terroristi dell’Isis e al suo effetto sulla segregazione crescente dei cristiani all’interno della comunità araba. Siamo tormentati dalla paura di ciò che il futuro potrebbe rappresentare per noi, da qualunque lato si guardino le cose.

QUI L’ORIGINALE

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