Comprendere le modalità espressive del movimento jihadista per il califfato aiuta a capire come combatterlo
Le atrocità commesse dai miliziani dell’Isis in Siria e Iraq hanno suscitato lo sgomento e l’indignazione a livello planetario. Eppure, alla luce di quanto è avvenuto, s’impone una riflessione sulla comprensione delle modalità espressive di questo movimento jihadista che ha seminato morte e distruzione. Si tratta di un approccio metodologico fondamentale per evitare uno scontro delle civiltà. È questa, d’altronde, la principale preoccupazione di papa Francesco il quale, durante la sua recente visita a Tirana, ha affermato che nessuno può permettersi di prendere a pretesto la religione «per le proprie azioni contrarie alla dignità dell’uomo e ai suoi diritti fondamentali, in primo luogo quello alla vita ed alla libertà religiosa di tutti».
Da rilevare che la strategia comunicativa di questi fanatici è incentrata sulla provocazione, uno dei tratti caratteristici dell’ideologia salafita, quella su cui si reggono le cellule eversive d’estrazione islamica. Il loro intento è quello di strumentalizzare la religione per fini eversivi, attribuendo all’Occidente la responsabilità del degrado mondiale. Ecco che, allora, certa propaganda integralista sfrutta volentieri la tradizionale apologetica anticolonialista e terzomondista, radicata nell’Islam, per avere presa sulle masse che soffrono spesso di arretratezza e frustrazione. Si tratta di una strategia che ha l’obiettivo di terrorizzare chiunque si opponga al loro delirio. Un vero e proprio terrorismo psicologico, veicolato attraverso il sistema multimediale, con l’intento di attribuire una precisa identità antagonista all’avversario.
Ecco che allora l’Europa viene definita cristiana, quando invece, oggi, è forse il continente più bisognoso di evangelizzazione, rispetto ad altre realtà come l’America Latina e l’Africa. I messaggi degli estremisti hanno una valenza oscurantista e perversa. Inoltre, i fautori della shari’a, non solo dimenticano che l’Islam è stato colonialista, attraverso le sue conquiste militari, addirittura più dell’Occidente, ma soprattutto attribuiscono al musulmanesimo un’indole coercitiva e violenta. Sebbene l’impianto teocratico dell’Islam – vale a dire la congiunzione tra ciò che è politico e ciò che è spirituale – sia ben sedimentato nell’umma, vale a dire della comunità islamica globale, imputare il sorgere di tali movimenti estremisti alla sola reazione antioccidentale, o a cause quali la povertà e lo sfruttamento è riduttivo e semplicistico.
Fin dalle sue origini, l’Islam è stato attraversato ciclicamente da ondate d’integralismo e di intolleranza a cui, però, si sono alternate stagioni di grande apertura. Basti pensare ai Kharigiti del primo secolo islamico che combattevano per un’ideologia purista ed integralista. Di converso, lo stato islamico medievale, in alcune sue fasi, fu flessibile e tollerante. E cosa dire, ad esempio, del sufismo che un tempo ispirava i musulmani alla pacifica convivenza? Una duttilità che si manifestò, peraltro, anche nel Novecento (almeno fino agli anni Settanta) quando in Medio Oriente le donne erano libere, ad esempio, di circolare senza il velo (hijab). Ecco perché, oggi, è indispensabile il contributo di musulmani che sappiano vincere le spinte intransigenti che si alimentano di un pensiero mitologico acritico, imposto mediante il monopolio culturale.
È possibile allora soffocare culturalmente l’estremismo islamico? Circa una cinquantina di anni fa, il padre del riformismo islamico iraniano, Ali Shari’ati, affermava che l’islam contemporaneo è nel suo XIII-XIV secolo; e se facciamo un raffronto con la storia europea, cioè con il XIII-XIV secolo, scopriremo che il Vecchio Continente doveva ancora vedere la riforma protestante e la riforma cattolica. Secondo Shari’ati, per superare il Medio Evo islamico (sebbene il Medio Evo cristiano non sia stato un’epoca buia), i musulmani non possono pensare di saltare a pie’ pari cinque, sei secoli, arrivando di colpo alla cultura moderna. «Dobbiamo riformare l’islam – scriveva l’intellettuale iraniano – rendendolo il volano di liberazione delle nostre società ancora ferme a una dimensione sociale tribale, cioè al Medio Evo dell’Oriente, mentre oggi è lo strumento usato dai reazionari per evitare il progresso e lo sviluppo sociale». Le parole e la vita di Shari’ati, morto ufficialmente per arresto cardiaco in Inghilterra nel giugno del 1977 (anche se sono in molti a ritenere che sia stato eliminato dalla polizia segreta dello Scià) indicano chiaramente il percorso che occorre seguire.
In questi anni, i Paesi Occidentali hanno fatto poco o niente per aiutare la società civile musulmana a uscire dall’immobilismo e sostenere politicamente e finanziariamente l’intelligentia islamica moderata. Una sfida che, visti i tempi, non può essere disattesa.