Medici Senza Frontiere è stata la prima organizzazione a riconoscere la gravità dell’epidemia che sta falcidiando l’Africa OccidentaleNessuno ti ha detto quando cominciare a correre, hai perso lo sparo dello start, cantavano i Pink Floyd nella loro Time. L’impegno sanitario mondiale nei confronti del virus Ebola in questo suo nuovo attacco è partito in ritardo, nonostante però qualcuno avesse lanciato l’allarme sulla gravità della situazione. Forti di una lunga esperienza sul campo, Medici Senza Frontiere è intervenuta con prontezza nei paesi interessati, cercando al contempo di istruire l’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) sulla gravità della situazione. Ma le politiche di tagli che hanno interessato l’organismo sanitario dell’ONU, oltre certamente ad una sottovalutazione della situazione, hanno fatto sì che le risposte in arrivo da Ginevra non siano state, in un primo tempo certamente ma in buona parte non siano ancora oggi, adeguate. Sono organizzazioni come Medici Senza Frontiere ed altre, finora, ad essere protagonisti dell’azione sul campo nei paesi falcidiati dalla malattia; molte di queste sono cattoliche, e tra poche settimane sarà in partenza anche una task force dell’Ordine dei Camilliani, di cui ci occuperemo presto su Aleteia. Proprio per questa difficoltà a reperire finanziamenti, Medici Senza Frontiere sta insistendo in una campagna in questi giorni chiedendo ai cittadini di contribuire con una donazione a combattere un’emergenza sanitaria che rischia di coinvolgere direttamente anche altri paesi, con un SMS al numero 45507 da oggi fino al 5 ottobre (ogni sms inviato equivarrà ad una donazione di 2 euro). Aleteia ha intervistato Loris De Filippi, presidente di Medici Senza Frontiere.
Come mai è stata MSF a capire per prima la gravità della situazione?
De Filippi: Per quanto riguarda il nostro impegno era abbastanza normale che fosse Medici senza frontiere a tirare il campanello d’allarme, perché per moltissimi anni abbiamo lavorato in queste crisi e abbiamo una capacità d’intervento peculiare. Già da tempo per tutte le crisi che normalmente sono molto più piccole e riguardano le epidemie di febbre emorragiche tipo ebola, o la Marburg, agiamo rapidamente. In questo caso abbiamo segnalato rapidamente, già in primavera, il fatto che quest’epidemia fosse completamente diversa da tutte le altre e che avrebbe causato problemi molto grossi. In effetti la proporzione dell’epidemia è vastissima, basti pensare che finora 5.000 persone si sono ammalate, almeno 2.500 sono morte, e i nostri centri sono sempre pieni. Al punto che a volte siamo costretti a mandare a casa persone che sono ammalate, cosa che produce un effetto a caduta ovviamente perché tornano a casa e possono infettare anche i loro cari.
Come ha risposto l’OMS ai vostri appelli?
De Filippi: Qui la situazione è drammatica, e per ben due volte – è questa è un caso più unico che raro nella nostra storia – nel giro di quindici giorni abbiamo sollecitato l’ONU a prendere delle misure importanti, per il momento senza avere grandissime risposte, se non l’impegno formale da parte di alcuni stati. Negli Stati Uniti Obama ha fatto stanziare dei soldi per moltiplicare in Liberia i nostri centri – per il momento nei tre paesi dell’Africa Occidentale colpiti, Guinea, Liberia e Sierra Leone, noi abbiamo cinque centri, e 500 posti letto circa. Gli USA vogliono aumentare questa capacità e questa è una cosa molto importante. Pochi altri paesi hanno dato la loro disponibilità ma l’OMS, è vero, in generale è in grave ritardo, vuoi per la mancanza di fondi, vuoi per altri motivi, vuoi perché semplicemente un’epidemia di ebola di queste dimensioni non è mai esistita. Certo, noi ancora una volta richiamiamo l’attenzione Delle Nazioni Unite proprio perché se non agiamo in questo momento il numero delle vittime è destinato ad aumentare in maniera importantissima.
Quali le inefficienze di fondo?
De Filippi: Questo per noi, e non lo dico perché non mi voglio compromettere, è molto difficile da giudicare, nel senso che non viviamo nella stanza dei bottoni e non conosciamo a sufficienza l’OMS per formulare delle ipotesi. Certo c’è un ritardo gravissimo, perché l’epidemia è iniziata esattamente 6 mesi fa, la dichiarazione sul fatto che in Guinea c’è un’epidemia di ebola dell’OMS risale esattamente ad allora. In sei mesi noi certamente c’aspettavamo un intervento diverso. Loro ad esempio hanno messo in piedi qualche settimana fa una road map per combattere l’ebola, ed è una cosa molto buona, ma siamo lontani da un primo atto chiaro e concreto, questo è il problema. Nessuno può sapere se questa epidemia si autoeliminerà o se tra sei mesi saremo ancora qui a parlare del problema.
Aleteia si è anche rivolta al professor Roberto Cauda, docente di malattie infettive presso l’Università del Sacro Cuore di Roma, e direttore del Centro della Solidarietà internazionale dello stesso ateneo, un’istituzione impegnata in varie paesi del mondo, tra cui molti africani. In questi giorni il professor Cauda si trova in Uganda proprio per uno di questi, e cioè per l’inaugurazione dell’edificio della Postgraduate Medical School dedicato ad Armida Barelli, fondatrice dell’Università Cattolica, a Kampala.
Professore, come si sta gestendo l’emergenza ebola?
Cauda: Il mio giudizio non è sul campo perché sono nell’Africa Orientale, non in quella Occidentale dove è l’epidemia. Posso però fare una riflessione. Oggettivamente questa è la più grave epidemia di ebola da quando è stata descritta la prima volta, nel 1976. È una malattia che prende il nome da un fiume del Congo e che da allora ha contato parecchie epidemie più o meno gravi. Essendo ora in questo momento in Uganda non posso dimenticare che due anni fa nel 2012 ci sono stati qui alcuni casi che sono stati immediatamente isolati. Ci sono epidemie periodiche, perché la presenza del virus è legata dalla presenza di serbatoi rappresentati dai pipistrelli, in parte anche dalle scimmie. I problemi sono molto seri perché la tipologia dell’infezione si diffonde con grande velocità. La mia riflessione è che noi non possiamo ricordarci dei problemi immensi che ha l’Africa, e l’ebola è uno di questi, solo e soltanto quando ci sono emergenze come queste, o vado oltre, quando la salute del mondo è messa in pericolo: noi dobbiamo occuparcene seriamente attraverso la ricerca scientifica, attraverso lo sviluppo di vaccini, più che di farmaci, che sono alla portata di una ricerca scientifica che se venisse indirizzata verso questo tipo di malattia, pur con tutte le difficoltà, io credo che qualche risultato in più l’avrebbe dato.
Cosa c’è da fare ora?
Cauda: Io penso che paradossalmente non ci siano molte cose da fare. Bisogna avere una forte attenzione nel controllo dei casi, in modo tale che da un singolo caso non se ne sviluppino altri. Anche l’invio da parte di Obama di medici e infermieri, l’uso dei mezzi di protezione, sono tutti mezzi che in qualche modo ci consentono di dire che si stanno mettendo le premesse perché ci possa essere un contenimento. Io quando sono arrivato qui all’aeroporto di Kampala ho notato una grande attenzione verso tutti i voli che venivano da aree anche non direttamente interessate dalla malattia; io venivo dall’Europa, attraverso la penisola arabica, e a tutti misuravano la temperatura con mezzi elettronici e facevano riempire una scheda: ora io non so se questo fosse legato alla contingente presenza dell’ebola, ma credo di sì perché altre volte non era avvenuto. È un segno di un’attenzione anche in stati lontani come l’Uganda verso quello che sta venendo in Africa.
I tagli dell’OMS fino a che punto hanno complicato la situazione?
Cauda: Io credo esistano quattro ragioni per le quali ci possono essere epidemie di questo genere, non solo l’ebola ma anche di altre malattie, e su questo concordo con un editoriale scritto da un esperto americano sul Sole 24 Ore di qualche giorno fa: la prima ragione è che quasi tutte queste malattie, specie quelle nuove, hanno un serbatoio animale; c’è una seconda ragione legata alla povertà, perché l’ebola è una malattia legata a condizioni misere di vita, anche di promiscuità, e vale la pena ricordare che non ci sono stati casi di traduzione di ebola da un malato a persone sane, al di fuori dell’Africa; una terza ragione è la globalizzazione, che oggi crea questa grande attenzione, dato che io oggi sono qui e domani altrove grazie agli aerei, e questo fa si che siamo costretti ad avere una grande attenzione – attenzione che peraltro in Italia nella classe sanitaria, è alta, come dimostrano le misure scattate quando ci sono stati i casi sospetti ; quarta ed ultima cosa, e qui rispondo alla sua domanda, è il fatto che tagliando, tagliando e tagliando sia evidente che si pagano dei prezzi. Se questa epidemia ci deve insegnare qualcosa è con le malattie infettive non si spreca mai, e i tagli in situazioni come queste possono rivelarsi estremamente pericolosi.