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La grande sfida della cultura cristiana: l’uomo tecno-liquido

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Enrique Chuvieco - pubblicato il 17/09/14
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Monsignor Raúl Berzosa: più che di “globalizzazione”, bisognerebbe parlare di “universalizzazione” della solidarietà e della speranza
Zoja, Todorov, Bauman… sono alcuni degli autori citati da monsignor Raúl Berzosa, membro di recente nomina del Pontificio Consiglio per la Cultura. Con la sua presenza nell’organismo vaticano e la sua guida di una delle diocesi più piccole della Spagna, certifica così uno dei paradossi più evidenti che si verificano all’interno della Chiesa cattolica, che parafrasando il papa, per lui è “molto più di una ONG”.

Il presule ricorda anche che la chiave di un’autentica cultura dell’inclusione ha tre basi: “cultura dell’incontro e dell’accoglienza; cultura della tenerezza e della fraternità; cultura della dignità umana personale e collettiva”. Vede inoltre con ottimismo la spinta che darà alla famiglia il prossimo Sinodo ed esorta a “rileggere a livello personale e collettivo, ma senza pregiudizi né ideologizzazioni”, la Humanae Vitae, della quale si celebra il 46° anniversario.

Come considera la cultura occidentale attuale un membro del Pontificio Consiglio per la Cultura?

È indubbio che non ci troviamo in un’epoca di cambiamenti, ma in un vero “cambiamento d’epoca”. Definirei la cultura di oggi, al di là dei topici della post-modernità o dell’ultramodernità, “tecno-liquida” da un lato e dell’“antropologia dell’individualità” dall’altro. Tutto all’interno della cosiddetta “globalizzazione”.

A cosa si riferisce quando parla di antropologia individualista?

È frutto della globalizzazione mal intesa che, come denuncia Luigi Zoja, presuppone “la morte del prossimo”. Todorov parla di “un uomo disorientato”, mentre Alain Touraine ha sottolineato che “siamo soli nel teatro della vita”, perché “i soggetti sociali si sono liquefatti”, ovvero sono diventati in molti casi irrilevanti; così la famiglia, i partiti politici, le associazioni… Si parla della “fine delle società” quanto all’uomo tecno-liquido.

Cosa significa cultura tecno-liquida?

Parliamo dell’uomo tecno-liquido (Z. Bauman) o homo-digitalus 2.0. Il colmo sono gli “hikikomori”, o giovani che si chiudono in camera propria con un computer e decidono di non uscire più. Una “società insaziabile”, sempre attiva, sempre digitalizzata, “twittizzata” e connessa in rete, in cui non si distingue tra giorno e notte, giorno feriale e giorno festivo, casa e lavoro; viviamo sempre “dipendenti” dalla “connessione”. “Laddove il solido aveva dimensioni spaziali ben definite, ora il liquido non mantiene forme durature, ma sempre mutevoli”.

L’uomo liquido, in breve, presenta queste caratteristiche: narcisismo, velocità, ambiguità, ricerca di emozioni, bisogno di infinite relazioni “light” (tecno-mediatiche e virtuali). Dal punto di vista religioso e culturale, l’uomo liquido manifesta “un sapere senza fondamenti”, immerso in una Babilonia plurale di linguaggi e di forme, come se vivesse in un labirinto senza centro né periferie. L’orientamento gli deriva o da ciò che utilizza la maggior parte o dai desideri e dalle necessità del proprio io. La conseguenza è la tendenza a soddisfare le necessità personale come criterio principale di legittimazione delle scelte di vita, mettendo da parte le questioni propriamente morali.

Il contrappeso di quanto detto sarebbero le correnti sotterranee che formano una mentalità, come affermava nella sua “Spirale del Silenzio”, la studiosa di comunicazione tedesca Noelle-Neumann… Quali sarebbero, a suo avviso, queste convinzioni latenti non espresse dal pubblico?

In primo luogo quattro convinzioni, o punti cardinali, che stanno rinascendo e sono quelle che ci indica sempre papa Francesco: riscoprire un’antropologia sana e integrale; recuperare un tessuto sociale forte; tornare a scommettere sui più deboli e poveri; una rigenerazione politica più genuina e participativa per il cittadino.

In buona parte delle manifestazioni culturali, come il cinema, c’è un pessimismo vitale, avvolto nella denuncia di situazioni limite. Quali fattori deve riunire una creazione culturale per offrire speranza senza cadere nel moralismo o nel volontarismo?

Si chiede innanzitutto di approfondire il mistero dell’essere umano e di riscoprire il potenziale che ci ha dato il Creatore, essendo stati creati a Sua immagine: in primo luogo, persone auto-intelligenti, libere, capaci di forte comunione e di essere molto creative. Non si tratta di reinventare o reideologizzare la persona, ma del triplice movimento che ci ha proposto Benedetto XVI: “assumere, purificare, elevare”.

Lei è uno dei pochi vescovi spagnoli presenti nel Pontificio Consiglio per la Cultura. Su quali approcci lavorate per promuovere una cultura all’altezza dell’uomo?

Sto iniziando a lavorare nel Consiglio. Valorizzo, per ciò che ne so, prima di tutto l’applicazione, in modo coraggioso e creativo, della proposta del Vaticano II: dialogo sincero con la cultura perché questa non si “cristallizzi”, o al contrario si “frammenti”. La fede apre porte e finestre in senso orizzontale e verticale alla cultura e le apporta la dimensione dell’universalità (cattolicità).

Papa Francesco parla della cultura dello scarto favorita dalla situazione economica attuale. Cosa possono e devono fare la Chiesa e i cattolici per promuovere la cultura dell’inclusione e del lavoro?

Richiamo le parole e le frasi di papa Francesco, che hanno una forza impressionante e si sintetizzano in tre chiavi: cultura dell’incontro e dell’accoglienza; cultura della tenerezza e della fraternità; cultura della dignità umana personale e collettiva. In quest’ultimo senso, papa Giovanni Paolo II ci parlava non tanto di una “globalizzazione”, quanto di una “universalizzazione” della solidarietà e della speranza, che rispetta l’idiosincrasia delle persone e dei popoli.

In un altro senso, Francesco spiega anche che la Chiesa non è un’ONG e non può esservi ridotta perché la sua natura e la sua finalità sono altre, e con questo previene un certo tipo di cattolicesimo impegnato a perseguire un regno sociale di Dio sulla terra. Qual è la sua opinione al riguardo?

Non sarebbe positivo sminuire o disprezzare l’opera di alcune ONG, tanto significativa e giusta, ma detto questo, sicuramente il cristianesimo non è una ONG della carità, anche se questo è il volto più benevolo e valorizzato da alcuni credenti e non credenti. La Chiesa è la Chiesa del Signore Gesù. Ed è l’“unione-risposta” (“ekklesia”) di coloro che hanno incontrato Gesù Cristo nella propria vita e, convertiti, desiderano insegnare agli altri l’“arte di vivere” nell’amore di Dio, come diceva Benedetto XVI. Per questo, da un lato non ci può essere separazione tra Gesù Cristo, Chiesa e carità, dall’altro la Chiesa è molto più di una ONG.

Nel senso precedente, Benedetto XVI diceva che sarà sempre necessaria la verità per aderire al bene, per cui noi uomini non riusciremo mai a raggiungere una società senza conflitti. Lo denunciava anche T.S. Eliot quando ha detto che perseguiamo sistemi perfetti (il XX secolo è un buon esempio) che non richiedono decisioni personali. Le sembra che questa prospettiva si adatti alla realtà?

Ciò che si sta denunciando, in fondo e per quanto è stato detto in precedenza, è che stiamo parlando di un “deficit di antropologia” completa. Solo l’antropologia cristiana salva e ci libera dai concetti di uomini antagonisti e drammatici
che abbiamo sperimentato nel XX secolo: né individualismi né collettivismi, né ottimismi antropologici né pessimismo. Rimando a E. Mounier e al suo “personalismo sociale o fraterno”. È un buon riassunto per entrare nel XXI secolo evitando gli errori del secolo precedente.

Il 25 luglio si sono celebrati i 46 anni della “Humanae Vitae”, che ha provocato tanta agitazione nella Chiesa e che spesso non viene vissuta da buona parte dei cattolici, soprattutto nel momento attuale di crisi economica. Come e in quali termini potrebbe valorizzarla un cattolico perché rappresenti un bene per la sua vita?

Non c’è dubbio che papa Paolo VI e il contenuto fondamentale della “Humanae Vitae” sono stati profetici e lucidi, e continuano ad essere validi oggi. Inviterei, ora che si sono calmate le acque, a rileggere a livello personale e collettivo, ma senza pregiudizi né ideologizzazioni, il pensiero di questo grande papa e la sua enciclica.

Il prossimo Sinodo della famiglia affronterà questa e altre questioni che riguardano tale istituzione. Possiamo aspettarci conclusioni pratiche che ce la facciano valorizzare di più in questo momento in cui è in fase di revisione per le proposte di altri tipi di famiglia?

Senza dubbio non uno solo, ma entrambi i sinodi sulla famiglia che ci aspettano avranno grande importanza, non solo per le conclusioni, ma per le basi stesse. Si riscoprirà l’origine “trinitaria” della famiglia come “invenzione di Dio”. Si ricollocherà la base della famiglia – l’amore autentico tra uomo e donna – e si rivalorizzerà la famiglia come “cellula fondamentale e cuore della società”, senza dimenticare che la famiglia è la “chiesa domestica”. Tutto questo senza complessi di inferiorità né di superiorità, proponendo e non imponendo. La verità si difende da sola.

Qualcos’altro?

La mia più sincera riconoscenza alla sua pubblicazione per l’intervista e la mia riconoscenza a papa Francesco, attraverso il Pontificio Consiglio per la Cultura, per questo onore immeritato che ha voluto concedermi. Il miglior modo di ripagarlo, da parte mia, sarà il servizio generoso e disinteressato. Vorrei saper porre un accento ispanico nelle mie umili collaborazioni e fare da ponte tra le due rive: la Chiesa che peregrina in Spagna e la Santa Sede (la cattolicità).

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

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