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Sartre si sbaglia: l’inferno non sono gli altri

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Rafael Luciani - Aleteia - pubblicato il 10/09/14
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Il cristiano ha un insegnamento molto importante da offrire: la “scoperta” del prossimo
Una delle grandi carenze umane che possiamo soffrire è l’incapacità di discernere il significato e la trascendenza della presenza degli altri nella nostra vita, e come ci possiamo rendere “prossimi” gli uni agli altri. Si tratta di un fenomeno globale, permeato da una profonda e crescente indolenza di fronte ai drammi umani che avvengono intorno a noi. In parte è frutto di atteggiamenti individualisti o escludenti che non promuovono né insegnano a riconoscere che l’altro è un “bene”, un tesoro prezioso, che ci dà vita e ci umanizza.

Forse è difficile comprendere che da questo dipende la nostra realizzazione come soggetti. È nel volto dell’altro, soprattutto del povero e della vittima, che si misura la portata della nostra umanità. È possibile che stiamo mancando nell’insegnamento e nella trasmissione della fede, non capendo che senza l’amore per il prossimo e la dedizione fraterna a lui la nostra fede sarà vuota, perché manchiamo della relazione più umana che possa esserci, la fraternità, il “renderci prossimi” agli altri per far loro spazio nel nostro cuore, nella nostra mente e nella nostra storia. Si tratta, quindi, di riconoscere che il cristianesimo si realizza sempre in un luogo sociale, e mai individuale.

Per molti, gli altri sono quelli che non appartengono alla cerchia intima di amici e familiari; immagini distanti, senza volto e sempre estranee ai propri interessi. C’è chi li tratta come esseri usa e getta e li cerca solo per il beneficio politico, economico o religioso che apportano loro. Sono pochi quelli che si relazionano con gli altri come soggetti con un volto, le cui storie di vita sono piene di speranze, sofferenze, bisogno di affetto. E anche di drammi che pochi conosciamo se manteniamo un rapporto superficiale o solo interessato con le persone.

Per questo, dobbiamo chiederci: che parole usiamo quando parliamo degli altri? Come li trattiamo? Conosciamo la storia della loro vita? Come consideriamo i poveri, le vittime e i malati nella nostra vita? Facciamo loro spazio nel nostro tempo e nel nostro affetto? Il rapporto con loro ci umanizza o è solo strumentale? Le nostre parole e le nostre azioni testimoniano la nostra umanità, espressa nei valori che nutriamo e nella visione di famiglia e di società che stiamo costruendo.

Vale la pena di ricordare il teologo svizzero von Balthasar: “L’uomo è sempre se stesso e il suo prossimo. Egli è responsabile della propria vita di fronte all’eternità, ma lo farà in base al modo in cui ha vissuto con il suo prossimo (…). Il prossimo non è concepito qui solo come l’ambiente che interessa privatamente l’individuo, ma anche come la totalità di coloro che costituiscono la vita in società”. Per questo, scoprire che l’altro ha un volto e una storia è un bene prezioso per ciascuno di noi. Dà il coraggio di superare pregiudizi e false barriere che impediscono di condividere, in modo sano, spazi della nostra vita, e di crescere così in umanità.

Percepire l’altro come prossimo ci dà una prospettiva diversa: non è qualcuno al quale dobbiamo offrire elemosine o donazioni, perché lo renderemmo dipendente anziché libero; è colui al quale dobbiamo avvicinarci, “renderci prossimi”, dedicare il nostro tempo per pensare a forme per condividere spazi e interessi, pur nelle differenze. L’altro deve essere sempre trattato come un bene prezioso nella nostra vita, anche quando non esiste alcuna simpatia o empatia, perché la sua dignità umana non può mai passare inosservata.

Nella parabola del buon samaritano il problema non è nel fatto di dare qualcosa al prossimo, ma di rendersi prossimo nel suo dolore. Avvicinarsi alla vittima, al caduto, e non passare oltre con indifferenza e indolenza. Solo il samaritano, che non era considerato degno di Dio né esempio morale, si è avvicinato e lo ha reso prossimo, perché mosso dalla compassione fraterna prima che dalla religione, dall’economia o dalla politica (Lc 10,29-37).

Per i credenti è una sfida trascendente. Implica il fatto di voler essere buoni e inclusivi come Dio, perché “Dio non bada a persona alcuna” (Gal 2,6). Gesù stesso era così convinto di questo che per lui non esisteva alcuna relazione religiosa, economica o politica che potesse sostituire quello che è il nostro compito: la sfida di diventare fratelli. Il valore che diamo al soggetto misurerà la nostra umanità (Mt 5,23-24). Come consideriamo l’altro nella nostra vita?

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

 

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