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“Il Silmarillion”, ecco il Tolkien che occorre rileggere

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Rino Cammilleri - La nuova Bussola quotidiana - pubblicato il 29/08/14
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Un’opera cattolica in cui ogni pagina è un trattato di linguistica, storia e geografia, ma soprattutto di Bene e male
Giusto dieci anni fa la nostra firma Marco Respinti (chissà se  ne ricorda) ha curato l’edizione italiana de Il Silmarillion di J.R.R.Tolkien. La Bompiani ne ha pubblicato una versione pocket a basso prezzo (€. 12.50, pochi per 683 pagine) che ho letto due volte di fila con sommo diletto. Già, perché la testa, per mestiere sempre fitta nella cronaca contemporanea, a volte trabocca di confusione per le male notizie che ogni giorno si affastellano l’una sull’altra. Uno scrittore e giornalista cattolico del Terzo Millennio vede ciò in cui crede vilipeso in Occidente, assediato dai tagliatori di teste islamici, non difeso da chi dovrebbe farlo, vede eretici conclamati osannati e riveriti, e lo sparuto numero degli ortodossi disprezzati e trattati come parenti scomodi, vede la vita quotidiana sempre più infarcita di nefandezze e governanti sessantottini prendere spensieratamente il sole sull’orlo del baratro che hanno meticolosamente creato.

Perciò, una boccata d’aria pura, anche se fantastica, almeno la sera, per addormentarsi e fare bei sogni, è necessaria come il pane. Il cattolico Tolkien è ormai universalmente noto grazie al regista australiano Peter Jackson che, dedicando ben tre film alla saga de Il Signore degli Anelli e altri tre a quella de Lo Hobbit, ha fatto incetta di Oscar e di soldi. Ora, Il Signore degli Anelli in effetti meritava tre puntate perché è opera composta di tre tomi. Ma Lo Hobbit era un solo volume. Eh, piatto ricco mi ci ficco, Jackson l’ha stiracchiato per farne tre, avendo capito, incassi alla mano, che Tolkien è una miniera d’oro. E il cattolico Tolkien, lo ricordiamo, scrisse esplicitamente, più volte, di aver fatto un’opera cattolica. Giustamente, un romanzo è tanto più «religioso» quanto meno parla di religione. Quel che conta è la filosofia che al lavoro sottende. Tanto per intenderci, un romanzo marxista non ha bisogno di citare stralci del «Manifesto» o di raccontare le avventure barricadiere di un bolscevico. 

Detto questo, l’opera omnia di Tolkien è una vera bombola d’ossigeno per noi cattolici evangelicamente affaticati e oppressi. Speriamo che Jackson si renda conto che, da Il Silmarillion, di film può cavarne altri sei e camparci di (cospicua) rendita da qui all’eternità. Speriamo anche che, lui, i produttori, le troupe e gli spettatori, si rendano conto che, se la saga di Tolkien piace tanto, qualcosa vorrà pur dire e riflettano sulla perennità e universalità (e, dunque, verità) della filosofia di cui è permeata. 

Il Silmarillion fu iniziato nel 1917 e mai terminato. Venne pubblicato solo nel 1977, quattro anni dopo la morte dell’autore, a cura del figlio Christopher. Di che parla? Nientemeno che di tutto quel che accadde prima de Lo Hobbit, partendo addirittura dalla Creazione. Come sanno i fan, Tolkien, filologo, aveva creato due lingue elfiche, il Quenya e il Sindarin, con tanto di vocabolario e guida alla pronuncia. Per giunta, consapevole dell’importanza (non solo) simbolica dei nomi (Gesù stesso ne fa uso nel Vangelo, cambiando per esempio il nome a Pietro), per ogni personaggio o luogo fornì anche le versioni nanesche, umane e angeliche, non trascurando i soprannomi nelle varie lingue e il mutamento dei nomi a seconda degli eventi. Si tratta, per giunta, di linguaggi coerenti, cioè con prefissi, suffissi, desinenze e plurali regolati da norme precise. Il che rende quasi impossibile per qualche altro autore cimentarsi in un fantasy che possa reggere il confronto. 

Già, perché Tolkien non solo ha inventato il genere fantasy, ma l’ha pure esaurito, nel senso che chiunque dopo di lui vi si impegni non può fare altro che rimescolare gli elementi già creati da Tolkien: elfi, draghi, nani, fate, uomini, signori oscuri, spade incantate, maghi. Perciò, a) Tolkien è inarrivabile, gli altri non possono uscire dalla pallida imitazione; b) l’opera di Tolkien è cattolica; c) ergo, raccontare la trama del «Silmarillion» qui è impossibile. Infatti, non si tratta di una trama, ma di più trame, una di seguito all’altra e una conseguenza dell’altra. Nel volume Bompiani ci sono anche, come al solito tolkieniano, mappe, genealogie, puntuali riferimenti all’intera saga, regole per la pronuncia e una lettera dello stesso Tolkien in cui spiega, per esempio, che Eru Ilùvatar è Dio, che gli Ainur sono gli angeli, che i Valar sono quelli tra loro che hanno scelto di prendersi cura di Arda, che Arda è la Terra, che Melkor è l’angelo malvagio e che detta malvagità è una sua precisa decisione (da qui il nuovo nome Morgoth). 

Nella lettera chiarisce anche che Nùmenòr è Atlantide (infatti, il lettore attento del Signore degli Anelli sa che dopo il suo sprofondamento nel mare quel regno fu chiamato in lingua elfica Atalantë, che vuol dire «la caduta»). In attesa di vederlo sul grande schermo, beiamoci dunque con la lettura e rilettura de Il Silmarillion, una ventata d’aria fresca, e preghiamo perché Ilùvatar ci mandi un altro scrittore cattolico della possanza di John Ronald Reuel Tolkien, nato nel 1892 e mai veramente morto. 

Qui l’originale

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