Carla Trommino racconta di come le è cambiata la vita svolgendo l’opera di assistenza ai migranti minorennidi Luca Maggi
Carla Trommino è un avvocato immigrazionista di Siracusa ed è presidente dell’associazione AccoglieRete, che aiuta i minori che sbarcano sulle coste della Sicilia. Aderisce all’Arci, associazione ricreativa legata alla sinistra. Oggi alle 11.15 sarà tra i relatori dell’incontro “L’immigrazione e il bisogno dell’altro: Italia, Europa, mondo” che si terrà nel Salone Intesa Sanpaolo D5.
Come mai è arrivata al Meeting?
È la prima volta che sono ospite a Rimini. Ho conosciuto la comunità di Comunione e liberazione di Siracusa, perché molti degli aderenti sono impegnati come volontari per diventare tutori di minori migranti. Da lì siamo diventati amici, e quando è stata presentata la biografia di don Giussani mi hanno invitata. Quel giorno ho conosciuto Alberto Savorana, che era venuto a presentare il suo libro, il quale mi ha chiesto di venire a Rimini a raccontare del mio lavoro.
Lei è avvocato immigrazionista e lavora per garantire la tutela dei minori non accompagnati. Perché ha deciso di dedicarti ai migranti?
Mentre studiavo giurisprudenza a Catania ho iniziato ad appassionarmi al diritto del lavoro, perché vedevo che c’era bisogno di persone che difendessero i diritti in quel campo. Poi ho conosciuto il mondo dell’immigrazione e ho scoperto che conteneva una sfida forte: all’inizio conoscevo soltanto il lato giuridico dei migranti, era come se vedessi isolamente il documento d’identificazione. Non che la tutela giuridica non sia importante, ma il bello di questo lavoro è che ti apre a tutta la vita di chi ti trovi di fronte.
Oggi qual è la condizione dei minori che sbarcano in Italia?
Prima i minori neanche si conoscevano, perché venivano affidati subito alle comunità. Quando i fondi hanno cominciato a scarseggiare, si sono dovute trovare strade nuove per difenderli, per evitare che restassero nei centri di accoglienza con gli adulti. Lì sono in pericolo, subiscono violenze e spesso ne escono con traumi indelebili. Uno dei problemi più gravi è che le persone che sbarcano si ritrovano lontane dalla loro cultura; questo rischia quasi di fermare lo sviluppo, quasi che la vita fosse rimasta intrappolata nel Paese d’origine. Un mio amico di 38 anni è arrivato in Italia più di 15 anni fa, e un giorno mi ha detto: «A volte mi sembra che la mia vita si sia fermata a 23 anni».
Da dove può ripartire un uomo strappato dalla realtà in cui è cresciuto?
La permanenza nei centri di accoglienza svuota la persona. Infatti, non facendo niente tutto il giorno, le persone diventano pigre e non si prendono cura né di se stessi né degli spazi in cui vivono. I centri di permanenza temporanea sono forse il luogo peggiore dove lasciare i migranti, e spesso alcuni problemi che si verificano dopo il soggiorno sono dovuti proprio a quei luoghi. È curioso che tantissimi dei minori che arrivano, quasi tutti, chiedano con insistenza una scuola dove imparare e un lavoro. E anch’io credo che la strada dell’educazione sia la via più giusta.
Per questo è nato il progetto AccoglieRete di tutela e di collocamento nelle famiglie?
Io sostengo che la famiglia sia il luogo più adatto dove un minore migrante possa essere collocato. Certo non esistono ricette perfette, ma cercare di inserire una persona in un contesto educativo come quello famigliare dà i suoi frutti, anche per chi decide di accogliere. Non a caso nelle 18 famiglie e nelle 2 comunità parrocchiali che hanno aderito, tutti hanno dato molto più di quanto era stato loro chiesto.
Rispetto alle solite cronache dei giornali sull’immigrazione, sembra di conoscere un mondo nuovo.
Certo. Ed è affascinante, perché uno pensa di sapere già tutto o di essere noi i migliori, invece ti trovi a dover imparare di nuovo. Quando mangiavo con Khalifa, un minore che avevo accolto, ho notato che continuava a stare zitto; io lo guardavo e gli facevo tante domande, ma vedevo che abbassava lo sguardo, così mi sono preoccupata e pensavo che fosse un problema grave. Una sera è sbottato dicendomi che non poteva parlare quando mangiava semplicemente perché, nella sua cultura, è segno di cattiva educazione. Il mio lavoro ti spinge a conoscere tutta la realtà della persona che hai di fronte, altrimenti è impossibile convivere e integrarsi: prima che arrivassimo con l’associazione, i migranti erano dei numeri identificativi, scritti su un documento. Il nostro lavoro ci ha spinti a conoscere davvero chi sono, fino a capire da che paese sono partiti e come si chiamano, con uno sguardo come quello che viene raccontato nella mostra di Avsi. O s’impara a entrare in rapporto “da cuore a cuore”, oppure l’alternativa saranno i ghetti o le banlieu, come a Parigi.