Il piccolo monastero di Sulaymaniyya, fondato da Paolo Dall’Oglio, apre le porte ai rifugiati cristiani. Il racconto del monaco della comunità
Eravamo tre e ora eccoci in 164. I tre: due monaci e una monaca della comunità al Khalil, fondata a Mar Musa in Siria, da padre Paolo Dall’Oglio. Centosessantaquattro: i rifugiati della regione di Mossul, cacciati dalle loro paesi a causa dell’avanzata dello “Stato islamico”, con il suo progetto di purificazione etnica e religiosa.
Tre, insediati da circa due anni in questo monastero della Vergine Maria, nel cuore della città vecchia di Sulaymaniyya. 164, alloggiati in qualche modo, anzi stipati nella biblioteca, nel salone, nella chiesa, nella casa dei monaci, oltre che in qualche casa abbandonata che abbiamo pulito in fretta e messo a posto nei giorni scorsi.
Il mese di agosto doveva essere dedicato ai campi estivi per i giovani cristiani iracheni, uno per le ragazze e l’altro in stile scout, con camminate e notti trascorse sulle montagne, con un programma di preghiere, meditazioni e condivisione. Invece è con noi questa massa di persone, alcune profondamente traumatizzate, fragili e sradicate più volte dal loro ambiente (alcune provenivano da Baghdad o da Mossul, prima ancora di essere cacciate da Qaraqosh, Bartalla, Tell Keyf e altri villaggi nella piana di Ninive).
La situazione di crisi a volte favorisce slanci di solidarietà ammirevoli, ma anche tensioni egoiste difficili da immaginare. C’è la famiglia che preferisce cucinare nella propria camera piuttosto che in cucina per non rischiare di condividere il fornello con altri rifugiati… Una decina di medici curdi e arabi, invece, dedicano cinque ore del loro tempo per proporre visite a tutti quelli che lo desiderano, utilizzando come studio una pila di materassi collocati in chiesa. Dicono semplicemente: "Questo Stato islamico non è l’islam…”. Un idraulico di Qaraqosh, papà di un neonato, lavora dieci ore al giorno per portare l’acqua in tutte le case e rifiuta del tutto di farsi pagare.
Dove siamo andando? Il mondo sunnita iracheno, profondamente frustrato, prigioniero tra il Kurdistan e il governo sciita di Maliki, fino a ieri al potere a Baghdad, si è alleato con gli jihadisti. Questi non hanno che l’omicidio, la violenza senza freni, per esprimere il proprio zelo religioso, non hanno che il genocidio per raggiungere una fantomatica purezza, il sogno di un’età dell’oro dei primi anni dell’islam per consolarsi delle divisioni della debolezza dell’Umma musulmana, reale e attuale.
I cristiani iracheni si sentono traditi dai loro vicini musulmani, si chiudono in un odio sterile per l’islam. Potrebbero inserirsi in Kurdistan, ma non ne condividono né la lingua né la memoria. Alcuni curdi si considerano nazionalisti laici (“prima di tutto curdi e poi musulmani”, o anche “l’islam è una religione araba e quindi straniera per noi”), altri trovano un equilibrio spirituale conforme al mondo islamico precedente agli Stati-nazione (“noi siamo uno dei popoli musulmani non arabi, il nostro islam è specifico, locale moderato, sufi”).
Ci troviamo in una regione del mondo bella e brutale. Occorre costruire e ricostruire continuamente senza sosta sulla propria bellezza culturale e morale. Sull’ospitalità, il senso dell’onore, la fede nel Dio unico misericordioso. Occorrono luoghi per questa misericordia, momenti di tenerezza collocati in questa geopolitica di guerra. I monasteri devono essere tali luoghi. Pregate perché siamo ospiti degni, qui, di questo luogo, sotto la protezione della Vergine a Sulaymaniyya…
Per contatti: info@deirmaryam.org Sébastien Duhaut