Dall’Africa occidentale le testimonianze di religiosi e operatori umanitari che assistono la popolazione anche a costo della vita
“Fino a non molti anni fa il Paese era in guerra civile, ma ora c’è un nemico diverso, invisibile, difficile da affrontare…”. Padre Michele Carlini, sacerdote saveriano in Sierra Leone, parla del virus Ebola che, ormai da marzo, ha provocato più di 1350 morti in quattro Stati dell’Africa: Guinea Conakry, Liberia, Nigeria e – appunto – Sierra Leone. Paesi che rimangono, nella grande maggioranza dei casi, ai margini delle cronache internazionali, se non quando si tratta di questioni di sicurezza o emergenze umanitarie; ma anche luoghi dove la presenza missionaria ha radici profonde e ha giocato un ruolo prezioso anche sul piano umano, in questa come in altre circostanze.
I mesi trascorsi da quando la febbre emorragica – per cui non esiste ancora una cura certificata – ha fatto per la prima volta la sua comparsa in Africa occidentale hanno sottolineato ancora di più la vicinanza della Chiesa alle popolazioni colpite. Spesso infatti i missionari sono stati a loro volta contagiati dalla malattia. Così è stato in Liberia, dove, ricorda il nunzio apostolico, mons. Miroslaw Adamczyk, da oltre 50 anni l’ordine di san Giovanni di Dio, i Fatebenefratelli, gestisce un ospedale nella capitale Monrovia. Tutti e tre i religiosi che vi prestavano servizio, padre Miguel, fra Patrick e padre George, hanno perso la vita a causa del contagio, così come suor Chantal Pascaline, della congregazione dell’Immacolata Concezione, che li aiutava. Per limitare il diffondersi del virus, la Chiesa ha partecipato a iniziative di sensibilizzazione, aiutando a educare sulle più elementari misure d’igiene. “Anche davanti alle parrocchie, come in tutti gli edifici pubblici – prosegue il nunzio – ci sono contenitori con una soluzione di acqua e cloro, perché le persone possano disinfettarsi le mani”; ma per una risposta efficace “servono risorse”, perché “non si tratta di una malattia comune, ma di un’epidemia che non si può affrontare senza essere preparati e ben protetti”.
“Anche noi in Sierra Leone facciamo la nostra parte” come Chiesa, conferma padre Carlini, “ma ci sono sempre nuovi problemi: ora l’ospedale diocesano di Makeni è vuoto, senza pazienti”, visto che la paura di essere contagiati spinge ancora molti – almeno in questo Paese – a evitare il ricovero o addirittura a fuggire dalle strutture di cura. La mancanza di pazienti porta con sé l’assenza dei loro contributi, indispensabili per far funzionare l’ospedale, quindi “non ci sono risorse per pagare gli stipendi” e i materiali sanitari, spiega ancora il religioso saveriano: praticamente un circolo vizioso. In effetti, anche in mancanza di cure approvate, continua il sacerdote “servono comunque guanti e altri mezzi di protezione” e la diocesi di Makeni svolge riunioni proprio per poter coordinare al meglio queste richieste.
In un contesto dove, per mesi, si è addirittura negata diffusamente l’esistenza della malattia o la sua gravità, però, l’opera fondamentale resta quella di sensibilizzazione. Vi è impegnata, ad esempio, la Caritas della Guinea, come spiega da Conakry il responsabile dei programmi, Antoine Dopavogui: “Fin dall’inizio dell’epidemia – dice ad Aleteia – abbiamo mobilitato decine di volontari per spiegare, con un’azione porta a porta, i mezzi di trasmissione della malattia e i metodi per prevenirla”. Non sempre, tuttavia, la presenza di queste persone è stata ben accolta, racconta Dopavogui. “Per due o tre mesi ci sono state resistenze: per la popolazione, andare nei centri sanitari voleva dire semplicemente aspettare di morire, ma poi si è cominciato a vedere che alcuni pazienti guarivano”. I comportamenti prevalenti, dunque, “sono cambiati, ed ora è più facile tenere in qualche modo sotto controllo l’epidemia”.
Per impedire il contagio, tuttavia, è necessario un isolamento strettissimo dei malati, che, nota da Monrovia mons. Adamczyk, “è umanamente difficilissimo da sopportare”, proprio quando si avrebbe più bisogno del contatto con amici e familiari. Per questo il presule fa notare l’importanza anche di un tipo diverso di azione, meno visibile, forse, ma ugualmente richiesto: “La vicinanza almeno con la preghiera è essenziale – è il suo invito – e in questo senso siamo grati a papa Francesco che, nell’Angelus del 10 agosto, ha ricordato tutte le vittime di Ebola, ma anche medici e infermiere impegnati a contrastare il virus”.