La guerra civile iniziata nel dicembre scorso continua a dilaniare il paese
La crisi in Sud Sudan, iniziata il 14 dicembre dello scorso anno, continua a rappresentare un fattore altamente destabilizzante non solo per la giovane nazione africana, ma anche per i Paesi limitrofi. Fonti ben informate del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nutrono poche speranze su una rapida fine della guerra civile in corso da otto mesi, malgrado la minaccia di sanzioni durante i colloqui di Addis Abeba. Stando a quella che era la tabella di marcia programmata in sede negoziale, l’attuale presidente del Sud Sudan Salva Kiir e il suo acerrimo rivale Riek Machar avrebbero dovuto dar vita, entro il 10 agosto, a un governo di unità nazionale. Ciò, purtroppo, non è avvenuto. Domenica scorsa, Machar ha incontrato a Khartoum il presidente nordsudanese Omar Hassan el Beshir. I due hanno parlato della crisi politica e militare e soprattutto dello stallo negoziale che si è venuto a determinare.
Come al solito, l’oggetto del contenzioso è rappresentato dall’oro nero che dal Sud Sudan affluisce al Nord. Pare che Machar abbia chiesto al presidente nord sudanese di fare pressione sul governo di Juba per sbloccare la trattativa, al fine di garantire non solo una ripresa a pieno regime delle attività estrattive ma anche di ottenere quanto richiesto in sede negoziale. Dunque, la ripresa delle attività petrolifere dipende da quello che i due litiganti sud sudanesi decideranno di fare. I fattori, comunque, che hanno determinato la crisi sud sudanese, come peraltro scritto su questo Blog in più circostanze, sono fondamentalmente due: la mancanza di volontà nel promuovere un dibattito politico per garantire un regime parlamentare nazionale e la forte contrapposizione tra le comunità etniche dei Denka e dei Nuer a cui Salva Kiir e Machar appartengono rispettivamente. Purtroppo, dall’indipendenza, sancita ufficialmente il 9 luglio del 2011, le rivalità tra i due gruppi sono continuate, in particolare nello Stato di Jonglei. Ma attenzione: i condizionamenti delle grandi potenze nello scacchiere sudsudanese sono evidentissimi.
Mentre il governo di Juba, in alcune delle sue componenti più significative, è propenso ad allearsi con Usa e Unione Europea (Ue) attraverso la cooperazione economica e militare ugandese, la fazione di Machar ha uno spiccato feeling con Pechino e il regime di Khartoum. Lungi da ogni retorica, andando, per così dire, al di là dei proclami umanitari del consesso delle nazioni, l’interesse dei governi occidentali e della Cina nel Sudan meridionale non può prescindere da importanti questioni strategiche legate a questo Paese e, più in generale, all’intero contesto regionale. Nel frattempo, a pagare il prezzo più alto della crisi sudsudanese è la povera gente.