Il presunto suicidio dell’attore ci ricorda l’infinito valore di ogni vita umana
Robin Williams è morto a 63 anni. Secondo i primi risultati si tratterebbe di suicidio. Tutti concordano sul fatto che si tratti di una tragedia
Tutti noi abbiamo un film preferito di Williams. Chi può dimenticare quando ha interpretato il genio della lampada di Disney o l’adorabile Mrs. Doubtfire? Molti di noi sono cresciuti con i suoi film. Non riesco a dire quante volte la mia sorellina abbia rivisto Jumanji. Non ci siamo mai stancati del suo genio.
Ma come contraltare alla luce sfavillante della sua carriera di attore c’era la sua lotta contro l’alcolismo e la depressione, particolarmente grave prima del suo apparente suicidio. In base alle notizie emerse, di recente avrebbe rimesso piede in un centro di riabilitazione, in uno dei tanti tentativi di guarigione.
Non possiamo sapere cos’abbia pensato o cosa lo abbia spinto al limite, ma sicuramente facciamo bene a reagire con tristezza alla sua scomparsa. Come potremmo essere felici che un uomo simile abbia posto fine alla propria vita?
Non posso evitare di pensare che come società siamo incoerenti nel nostro atteggiamento verso la vita. La stragrande maggioranza del Paese piangerà il gesto estremo di Robin Williams, ma un crescente numero di persone sostiene l’eutanasia, ad esempio il suicidio medicalmente assistito. Com’è possibile che un momento siamo convinti della tragedia della morte di Williams e quello successivo sosteniamo il “diritto” della gente di scegliere quando morire?
San Giovanni Paolo II ha colpito nel segno quando nella Evangelium Vitae ha affermato che “nell’orizzonte culturale complessivo non manca di incidere anche una sorta di atteggiamento prometeico dell’uomo che, in tal modo, si illude di potersi impadronire della vita e della morte perché decide di esse, mentre in realtà viene sconfitto e schiacciato da una morte irrimediabilmente chiusa ad ogni prospettiva di senso e ad ogni speranza”.
Come ha sottolineato il santo, c’è il volto della vita e della morte che, a livello culturale, siamo spesso disponibili ad accettare. Vogliamo credere che avremo sempre tutto sotto controllo, che abbiamo il potere su tutto, anche sulla vita e la morte. Un’estensione naturale di questa convinzione è un sostegno all’eutanasia – se una persona vuole morire, perché non permetterglielo?
La nostra reazione istintiva alla perdita di Robin Williams punta tuttavia alla realtà del suicidio: è una perdita totale di speranza. Malgrado ciò che affermano i sostenitori dell’eutanasia, il suicidio non è una “morte con dignità”. La battaglia di Williams contro la depressione e la dipendenza evidenzia nel suicidio non un’occasione gioiosa, ma un momento di disperazione estrema.
Speriamo e preghiamo che Robin Williams e tutti coloro che pongono fine alla propria vita trovino l’amore senza fine di Dio. Anche se riconosciamo che eliminare qualsiasi vita – inclusa la propria – è un male, non possiamo presumere di conoscere la condizione di un’anima, né dovremmo sottovalutare la misericordia di Dio.
Robin Williams ha detto una volta che “la morte è il modo della natura per dire ‘il suo tavolo è pronto’”. L’umorismo macabro rivela la morte come nemica di tutto ciò che rende la vita una festa – un grande e sontuoso piacere. Invitare la morte significa perdere qualsiasi voglia di vivere, perdere il semplice piacere di essere vivi. Tragicamente, la depressione ha tolto a Robin Williams la gioia che aveva donato a milioni di persone.
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Caitlin Bootsma è editrice del Truth and Charity Forum dello Human Life International (truthandcharityforum.com) e direttore di comunicazione di Fuzati, Inc., una compagnia di marketing cattolica.
[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]