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Francesco, i Gesuiti e quell’antica passione per l’Asia

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Terre D'America - pubblicato il 11/08/14
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Da giovane sognava di fare il missionario in estremo Oriente. Ora ci torna da Papa. Rotta in Corea. Sullo sfondo la grande Cina

di Lucio Brunelli 

direttore TV2000

Non fosse stato per quel polmone malandato oggi padre Jorge Mario Bergoglio non sarebbe papa. Sarebbe missionario in Asia. Non appena balenò nella sua vita la chiamata al sacerdozio il suo primo desiderio infatti fu di partire missionario per il Giappone. Fu quella brutta infezione polmonare a mettersi di traverso, tra il giovane Bergoglio e la grande nazione del Sol Levante. Benché ristabilito, con un pezzetto di polmone in meno, i suoi superiori non lo ritennero adatto all’impresa. A Bergoglio non restò altro che obbedire. Non poteva immaginare, a quel tempo, che un giorno da papa avrebbe potuto dare forma nuova al sogno della sua giovinezza.

Il fascino dell’Estremo Oriente è nel dna dei gesuiti. Da San Francesco Saverio a Matteo Ricci i primi discepoli della Compagnia di Gesù furono subito attratti da quella che molti consideravano una missione impossibile, portare la novità del cristianesimo in una civiltà antichissima che appariva refrattaria a ogni influsso esterno. Passione per una “periferia” geografica e culturale che i gesuiti intuivano essere destinata a contare sempre di più nel mondo intero. Popoli a cui guardavano con lo stesso sguardo con cui San Paolo affrontò i suoi viaggi più impervi e avventurosi facendosi “greco con i greci, giudeo con i giudei” per conquistare nuove anime a Cristo.

I discepoli di sant’Ignazio riuscirono ad arrivare dove altri ordini religiosi non avevano mai osato, fin nel cuore della città proibita, a Pechino. Facendo leva su tutto, anche sullo studio dell’astronomia che affascinava l’imperatore cinese. Furono ammirati e furono odiati. A decine morirono martiri. A volte dovettero lottare anche contro le rigidità della curia romana. Esemplare la controversia sui riti cinesi. Ai nuovi convertiti con gli occhi a mandorla i missionari gesuiti non ponevano come condizione, per abbracciare la fede cristiana, di rinunciare alla pratica confuciana del culto degli antenati. Inizialmente, nel 1656, il Sant’Uffizio diede ragione ai gesuiti. Poi prevalse una posizione più ‘talebana’ e i saggi tentativi di ‘inculturazione’ promossi dalla Compagnia di Gesù furono sconfessati; la pratica dei riti cinesi considerata “superstizione” incompatibile con la dottrina cattolica. Le conseguenze sull’azione missionaria furono devastanti. Solo tre secoli dopo, nel 1939 per volontà di Pio XII un decreto di Propaganda Fide riabilitò l’approccio dei gesuiti.

Di fatto l’Asia nel suo insieme restò, fra i cinque continenti, il più impermeabile al cristianesimo. Tuttora i cattolici, sebbene in crescita con percentuali superiori alla media europea, non superano il tre per cento della intera popolazione asiatica. Popolazione immensa: in questo lembo del mondo vive il 50 per cento degli abitanti di tutto il pianeta.
Se il giovane prete Bergoglio non poté partire missionario a causa di un polmone, fu ancora un problema di salute precaria a impedire a Benedetto XVI di mettere piede in Asia nel corso del suo pontificato. Ventiquattro viaggi apostolici all’estero, di cui quattro intercontinentali (inclusa l’Australia per una Gmg) ma mai una volta in Asia. Quando i suoi collaboratori iniziarono a progettare una visita i problemi di pressione e di fuso sconsigliarono un viaggio così lungo in aereo.

Ora tocca a Francesco fare rotta verso Oriente. La Corea del Sud dal 13 al 18 agosto. Poi, a gennaio 2015, lo Sri Lanka e le Filippine. Una priorità, l’Asia, del suo pontificato. Sullo sfondo, per ora lontana ma non nel cuore e nella mente del papa gesuita, la grande Cina.
Un po’ di Corea Bergoglio l’ha già conosciuta a Buenos Aires. All’inizio di febbraio ha nominato Han Lim Moon, sacerdote coreano da vent’anni in Argentina, vescovo ausiliare nella poverissima zona di San Martin, dove opera padre Pepe, parroco nella favela della Carcova, uno dei sacerdoti prediletti da Bergoglio.

La Corea non è solo una delle tigri dell’economia asiatica. È anche una delle tigri della evangelizzazione nel continente come ben racconta Vincenzo Faccioli Pintozzi nel suo libro su “La missione di Papa Francesco in Corea”. I cattolici sono cresciuti a un ritmo vertiginoso negli ultimi decenni, ora formano il dieci per cento della popolazione. Caso più unico che raro il vangelo nel “paese del calmo mattino” non l’hanno impiantato dei missionari stranieri ma dei laici locali, convertiti dall’eco, giunto fin qui, della suggestiva predicazione di Matteo Ricci a Pechino.

La Corea è un paese ferito. Diviso innaturalmente in due stati, dalle logiche violente della guerra fredda. Ma le ferite non sono solo geopolitiche. Disciplina confuciana e spirito capitalistico hanno formato nella Corea del Sud una miscela insolita, carburante di una economia che ha imposto i suoi marchi di successo in tutto il mondo, dalla Samsung alla Hunday. Il prezzo è spesso quello di una vita tutta schiacciata nell’orizzonte del lavoro. La singola persona quasi annullata sull’altare della produzione e del profitto. Ecco allora il possibile interesse per il cristianesimo: non tanto la moda intellettuale di una ‘religione occidentale’ ma la possibile esperienza di un orizzonte diverso nel vivere. Tutta questa storia, tutta questa possibilità, porterà con se il missionario Francesco che a causa di un polmone malandato ha dovuto ritardare di qualche decennio la sua partenza per l’Asia.

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