E se i giovani fossero vittima di una congiura sociale?
L’autoritratto che i giovani italiani hanno dipinto di se stessi in un recente studio curato dall’Istituto Toniolo smentisce molte delle narrazioni degli adulti che li ritraggono come apatici e schizzinosi, svogliati e poco impegnati.
I giovani diventati maggiorenni dopo il 2000, definiti i millenials, non solamente sono consapevoli della crisi economica e sociale che preclude loro di cullare sogni e desideri, ma in mezzo al «deserto delle opportunità» si aprono vie sperimentali davanti allo stupore dei genitori o degli educatori.
Imparano lingue, diventano presto artigiani digitali, sono autodidatti, attraverso i social networks si confrontano con i loro coetanei di diverse parti del mondo e si raccontano non più attraverso scritti o libri, ma con foto e brevi messaggi in una sorte di connessione continua. È il loro modo di vivere il tempo: i giovani sono concentrati ad investire progetti e risorse nell’«eterno presente» senza angosciarsi del futuro. Ne è prova la loro reattività positiva e la voglia di spiccare in volo. Sono tutt’altro che passivi e defilati. Eppure il volume di Michele Serra, tra i più venduti in questo ultimo periodo, parla di loro come «gli sdraiati». Due mondi, quello dei giovani e degli adulti che sembrano aver perso l’alfabeto della comunicazione.
I primi abituati a navigare nel difficile mare della Rete con i loro linguaggi e convenzioni; è vero, a volte nel loro viaggio, sono privi della stella polare che li guida o di una bussola che li orienti; i secondi, gli adulti, abituati a camminare su un cammino ereditato dalla propria tradizione e cultura di appartenenza si sentono spesso inadeguati da quel nuovo mondo creato dalla globalizzazione, dall’innovazione tecnologica e dalle trasformazioni demografiche della società.
Ecco come Serra esprime il disorientamento del suo essere padre: «È anni dopo, è quando tuo figlio (l’angelo inetto che ti faceva sentire dio perché lo nutrivi e lo proteggevi: e ti piaceva crederti potente e buono) si trasforma in un tuo simile, in un uomo, in una donna, insomma in uno come te, è allora che amarlo richiede le virtù che contano. La pazienza, la forza d’animo, l’autorevolezza, la severità, la generosità, l’esemplarità… troppe, troppe virtù per chi nel frattempo cerca di continuare a vivere. […] Con il forte sospetto — quasi una certezza — che le generazioni precedenti, quanto all’arte di non farsi sopraffare dai figli, fossero molto più attrezzate della nostra» [2]. La sua descrizione del figlio è senza appello: «Eri sdraiato sul divano, dentro un accrocco spiegazzato di cuscini e briciole. […] Sopra la pancia tenevi appoggiato il computer acceso. Con la mano destra digitavi qualcosa sullo smartphone. La sinistra, semi-inerte, reggeva con due dita, per un lembo, un lacero testo di chimica, a evitare che sprofondasse per sempre nella tenebrosa intercapedine tra lo schienale e i cuscini, laddove una volta ritrovai anche un würstel crudo, uno dei tuoi alimenti prediletti. La televisione era accesa, a volume altissimo, su una serie americana nella quale due fratelli obesi, con un lessico rudimentale, spiegavano come si bonifica una villetta dai ratti. Alle orecchie tenevi le cuffiette, collegate all’iPod occultato in qualche anfratto: è possibile dunque che tu stessi anche ascoltando musica»[3]. Sono davvero così i giovani italiani? È vero che non esistono più i giovani di una volta? Insomma — per quanto ci sia permesso di generalizzare un fenomeno culturale complesso — i giovani sono resilienti e tenaci o sdraiati e mollaccioni?
E se i giovani fossero vittima di una congiura sociale in cui sono gli adulti i responsabili delle loro condizioni?
A porsi la domanda è Stefano Laffi che nel suo recente volume sfata un ritornello sociale: «I giovani sono in crisi e le nuove generazioni sono senz’anima». Egli sostiene il contrario: sono gli adulti i veri responsabili delle condizioni in cui versano i giovani «dalla culla alla scuola, dall’università all’interminabile precariato lavorativo, il mondo degli adulti progetta e produce le nuove generazioni per soddisfare i propri bisogni e le proprie aspirazioni»[4].
E continua: «prima bambini capaci di saziare il narcisismo dei padri, poi adolescenti consumatori di esperienze e prodotti suggeriti da un marketing onnipresente, infine stagisti da reclutare e dimettere a seconda dei volubili trend del mercato». La sua tesi impone una riflessione: «L’eterno limbo in cui oggi sopravvivono molti giovani garantisce lo status degli adulti, la loro economia schiavistica, la loro psicologia egocentrica, in una parola il loro potere: la condizione giovanile è il risultato di una vera e propria congiura». Se, da una parte si tratta di una posizione estrema che non include le buone pratiche educative già esistenti in molte famiglie, scuole, oratori ecc., Laffi pone una domanda seria alla cultura sul rischio di normalizzazione e omologazione della generazione che tra qualche anno sarà chiamata a guidare il Paese. L’esame di coscienza dell’adulto — chiamato a rispondere alla domanda: «Ma che figli cresciamo?» —, riparte da qui: gli egoismi, gli attaccamenti ai ragazzi come se fossero oggetti, le deleghe, le apprensioni, di incertezze personali. È la stessa provocazione che intercetta la confessione di M. Serra al figlio:«Penso a come è stato facile amarti da piccolo.
A quanto è difficile continuare a farlo ora che le nostre sono appaiate, la tua voce somiglia alla mia e dunque reclama gli stessi toni e volumi, gli ingombri dei corpi sono gli stessi» [5].
Insomma, soprattutto la letteratura, chiede di «rieducare gli adulti» per non incolpare i ragazzi «rappresentandoli in modi fasulli a beneficio dei marchi o del controllo sociale, mentre patiscono uno sfruttamento quotidiano negli stage, nei lavori mai e mal pagati, negli affitti inaccessibili, nelle promesse ridicole, in uno stato di crisi economica non di oggi ma da sempre» [6].
Il cambiamento richiede che gli adulti convertano la loro sterilità e ascoltino i giovani per misurare la sincerità delle loro intenzioni e aiutarli a riscattarsi e mettersi in cammino di ricerca insieme a loro. Proprio come scrive Serra: «Camminare è un’esperienza. Un’esperienza di salvezza. Mi devi credere». «Sentirmi chiamare papà e da lontano, e in quella esposta porzione di mondo, in quella incerta dimensione del tempo dove la mia infanzia ancora galleggiava, quasi mi atterrì. Come un’accusa. Un richiamo all’ordine. Io — non altri — sono quelle due sillabe».
Oltre ai genitori e agli educatori, chiamati a riconvertire linguaggi e il modo di comprendere i giovani, rimane la responsabilità della politica chiamata a pensare al bene delle future generazioni.
Certo ai giovani italiani per poter volare si richiede la conoscenza delle lingue, una laurea che abbia mercato oppure avere una competenza specifica di un mestiere, essere adatto per lavori tecnico-scientifici e di programmazione informatica e soprattutto essere resiliente al sacrificio.
[1] Istituto Giuseppe Toniolo, La condizione giovanile in Italia. Rapporto giovani 2013, Bologna, il Mulino, 2013.
[2] M. Serra, Gli sdraiati, Milano, Feltrinelli, 2013, 21.
[3] Ivi, 50.
[4] S. Laffi, La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazioni, Milano, Feltrinelli, 2014.
[5] M. Serra, Gli sdraiati, cit., 20.
[6] S. Santambrogio, «Pensare e agire», 25 gennaio 2014, in www.ilsole24ore.com/
Leggi l’articolo intero pubblicato su La Civiltà Cattolica n. 3932.