Sulla scarsa attenzione intorno alle notizie drammatiche sulle persecuzioni che continuano ad arrivare dall’Iraq e dalla NigeriaCi sono violenze in cui è difficile separare nettamente il ruolo dei carnefici da quello delle vittime. All'opinione pubblica mondiale, giustamente impressionata dal massacro di civili e dalle devastazioni indiscriminate di cui è responsabile in questi giorni l'esercito israeliano nella striscia di Gaza, non può sfuggire che questa azione militare si inserisce in una folle faida pluridecennale, in cui la posta in gioco è stata ed è, dichiaratamente, da parte palestinese, l'annientamento dello Stato d'Israele. Una faida che, peraltro, ha avuto il suo ultimo rilancio con l'assassinio di tre ragazzi ebrei e una pioggia di razzi lanciati da Hamas su obiettivi civili.
Reciprocamente, a chi (come alcuni notissimi giornalisti italiani) fanaticamente identifica le critiche alla politica israeliana con un'ennesima manifestazione di antisemitismo e considera l'operazione in corso un legittimo atto di autodifesa, è facile ricordare le innumerevoli vessazioni a cui Israele ha sottoposto in questi anni – e continua a sottoporre – uomini, donne e bambini palestinesi anche in tempo di "pace" e l'inaccettabilità di uno stile che ricorda purtroppo quello di cui gli stessi ebrei sono stati vittime al tempo del nazismo.
Ferma restando la solidarietà con gli innocenti che, dall'una e dall'altra parte, scontano le responsabilità dei loro capi, si capisce la difficoltà che le persone di buon senso hanno nel condannare unilateralmente l'una o l'altra fazione in conflitto, chiudendo gli occhi sui torti dell'altra. Più che attraverso una simile presa di posizione a favore dell'uno o dell'altro, la pace si può raggiungere attraverso una "conversione" di entrambi (è quello che ha tentato papa Francesco qualche tempo fa) alla logica del dialogo.
Ci sono, però, violenze dove la contrapposizione tra carnefici da una parte e vittime dall'altra è più evidente e in cui sarebbe più possibile e necessario schierarsi dalla parte delle seconde contro i primi. Ma, stranamente, sono quelle di cui si parla di meno e alle quali l'opinione pubblica – a livello sia internazionale che italiano – guarda con minore attenzione, se non addirittura con aperto disinteresse.
Una di queste è la sistematica persecuzione dei cristiani in alcune aree del mondo, come l'Iraq e la Nigeria, ad opera di fanatici che deliberatamente si propongono la loro eliminazione fisica dai territori che essi controllano. In Iraq – ma anche nelle zone della Siria coinvolte dall'offensiva conquistatrice dell'Isil, l'autoproclamatosi califfato islamico che ora controlla questi territori – ai cristiani è stato posta la drastica alternativa tra convertirsi all'islam o abbandonare le loro case, le loro terre, il loro lavoro, senza neppure portare con sé i loro averi mobili. Altrimenti, la morte.
È l'estremo esito della dissennata avventura irachena di George Bush. Al tempo del tiranno (lo era veramente!) Saddam Hussein, i cristiani erano rispettati e costituivano una componente come le altre della società. Occupavano anche posti di responsabilità: il ministro degli esteri di Saddam, Tarek Aziz, era cristiano. Nella nuova situazione creatasi con l'intervento americano, tutti gli equilibri sono saltati. Saddam aveva sulla coscienza centinaia di migliaia di vittime innocenti, ma non sono state di meno quelle provocate dal caos seguito alla sua caduta. E, soprattutto, è venuta meno ogni possibilità di coesistenza tra le confessioni religiose del paese. E qui ci sono dei violenti che schiacciano degli inermi. Così, i cristiani iracheni, che dieci anni fa erano un milione e mezzo, ora sono ridotti a meno di trecentomila, costretti come sono a fuggire da territori dove erano radicati dall'epoca più antica del cristianesimo.
Un altro teatro delle persecuzioni nei confronti dei cristiani è la Nigeria, dove il gruppo terroristico islamico di Boko Haram imperversa distruggendo chiese e massacrando le persone. A destare l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale è stato il rapimento di quasi trecento studentesse, con la minaccia di venderle come schiave. Ma questa è solo la punta dell'iceberg. «Nell'ultimo anno sono tremila i morti provocati dalle violenze di Boko Haram. Ogni giorno 800 persone sono costrette a scappare dalle proprie zone di residenza. È quanto emerge da un rapporto dell' Internal Displacement Monitoring Centre (Idmc), secondo il quale gli sfollati nigeriani ammontano ormai a 3,3 milioni di persone» (www.repubblica.it).
Tutto ciò avviene con la complicità di paesi islamici, alcuni dei quali amici dell'Occidente. Il portavoce della diocesi di Abuja ha dichiarato: «C'è un fiume di soldi che va a finanziare i Boko Haram: una ricerca indica che quasi chiaramente Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Iran mandano i soldi, danno la possibilità di formazione di questi islamisti, inviano armi che arrivano poi in Egitto, Libia, Tunisia e, da lì, scendono attraverso il Sahara per arrivare a noi, in Nigeria» (www.radiovaticana.va).
Non vorrei togliere una sola parola agli articoli e a servizi radiotelevisivi che si moltiplicano, in questi giorni, per denunziare le violenze perpetrate dagli israeliani a Gaza, come non mi sentirei di minimizzare l'angoscia di un popolo, quello israeliano, costantemente minacciato di distruzione. Ma mi chiedo perché – a parte lo scalpore determinato dal rapimento di massa delle studentesse nigeriane – si parli così poco, almeno nel nostro paese, della persecuzione sistematica delle minoranze cristiane, di cui ho citato sopra due esempi particolarmente drammatici. Si tratta, se non mi sbaglio, dell'unico caso di violenze determinate in modo prevalente – anche se non esclusivo (altri moventi, di un certo rilievo, sono presenti sullo sfondo) – da pura e semplice intolleranza religiosa. E questo dovrebbe indignare tutti, credenti di qualunque fede e non credenti.
Non so se questa indignazione porterebbe a misure concrete. Ma proprio il caso delle ragazze nigeriane ha mostrato che una presa di posizione massiccia dell'opinione pubblica è possibile e finisce per avere degli effetti, anche se non immediati. In ogni caso sarebbe un segno che, in un mondo occidentale così sensibile ai diritti, anche ai cristiani viene riconosciuto almeno quello di esistere.