Il recente decreto di Zingaretti sui medici dei consultori pone un dibattito: come può l’esercizio legittimo di un diritto, venire ridotto con un semplice atto amministrativo?di Adriana Cosseddu
La notizia che un presidente della Regione, dettando le linee di indirizzo per i consultori familiari, possa comprimere l’esercizio di un diritto fondamentale quale l’obiezione di coscienza pone una domanda: poteva farlo?
Occorre tener presente che il presidente della Regione Lazio Zingaretti ha adottato il decreto in questione in qualità di commissario, ovvero, nella funzione a lui attribuita di completare il Piano di rientro dai disavanzi del settore sanità. Dunque, una funzione specifica e di natura tipicamente amministrativa, che non consente certo di intervenire su un diritto costituzionalmente garantito. Invece, nel decreto adottato il maggio scorso è prevista, per i medici obiettori operanti nei consultori, una limitazione all’esercizio dell’obiezione di coscienza, e ciò nonostante la previsione dell’art. 9 della legge 194/1978.
La legge nazionale sulla «tutela sociale della maternità» e l’interruzione della gravidanza consente infatti al personale sanitario di non prendere parte alle procedure (che nell’art. 5 includono la certificazione preliminare all’aborto) e alle attività dirette all’interruzione volontaria della gravidanza.
Contrariamente a tale disposizione, nel decreto del Commissario si dispone non solo la certificazione, che risulta imposta agli obiettori, ma anche l’obbligatorietà della prescrizione della cosiddetta pillola del giorno dopo, nonché l’applicazione di dispositivi (IUD) con l’effetto di impedire di fatto l’annidamento dell’embrione.
Come può l’esercizio legittimo di un diritto che la legge consente, venire ridotto con un semplice atto amministrativo? La domanda è doverosa e necessaria.
Doverosa, perché l’obiezione di coscienza investe la sfera più intima della persona, ed è un diritto garantito dagli artt. 2, 19 e 21 della Costituzione. È un diritto tra quelli inviolabili, il cui esercizio è espressione della libertà religiosa e della libertà di manifestazione del pensiero. Come tale, rientra nel «diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione» dell’art. 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, e del Patto internazionale sui diritti civili e politici; è oggi espressamente consacrato nell’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Trattato di Lisbona).
Domanda necessaria, perché se il diritto all’obiezione di coscienza è ammesso anche per la sperimentazione animale (Legge 413/1993), non si comprende come possa essere limitato rispetto alla vita umana, che comunque la legge 194 all’art. 1 dichiara di voler tutelare.
Ci hanno forse abituato a pensare che l’obiezione di coscienza sia contro l’osservanza della legge, mentre la si esercita per la difesa di un diritto, in questo caso indisponibile, quale la vita, fondamento e premessa di ogni altro.
Non si riflette mai abbastanza, o non si riflette affatto, sull’intero contenuto dell’art. 5 della legge 194, che proprio all’inizio affida ai consultori e alle strutture socio-sanitarie «il compito in ogni caso», e specialmente in presenza di una richiesta di IVG dovuta a condizioni economiche o sociali o familiari, di stare accanto alla donna per «aiutarla a rimuovere» le cause e trovare una possibile soluzione alternativa all’aborto.
È la stessa legge che lo prevede e andrebbe applicata; e perché non lasciare ai medici obiettori questo spazio capace di spezzare la solitudine in cui spesso la donna è lasciata?
Si tratta di essere tutti cittadini, piuttosto che sudditi!