Il suicidio assistito non è la strada da percorreredi Alistair Macdonald-Radcliff
Il suicidio e l'assassinio sono due cose che la Chiesa ha sempre dichiarato sbagliate. Ha suscitato quindi notevole interesse nel Regno Unito negli ultimi giorni che si sia iniziata una discussione su un disegno di legge che autorizzerebbe l'assistenza in entrambi i casi.
Forse ancor più sorprendente è stato l'intervento di Lord Carey, ex arcivescovo di Canterbury, a sostegno dell'idea. In un articolo pubblicato sul Daily Mail, ha annunciato di aver cambiato idea, invertendo la sua posizione precedente e spezzando la lunga tradizione della Chiesa d'Inghilterra su questi argomenti.
Nel background c'è una serie di casi difficili e molto tristi, l'ultimo dei quali è stato quello di Tony Nicklinson, paralizzato dopo un colpo apoplettico e che soffriva da nove anni della cosiddetta “sindrome del chiavistello”, che trovava insopportabile. Per questo, voleva che qualcuno lo uccidesse iniettandogli una droga letale (anche se, in caso fosse stato necessario, era pronto a uccidersi con un macchinario inventato da un certo dottor Nitschke che, dopo essere stato caricato con un farmaco letale da un aiutante, avrebbe potuto essere attivato digitalmente da Nicklinson, usando un cenno stabilito attraverso un sistema di computer basato sul battito delle ciglia).
Le leggi esistenti nel Regno Unito probiscono sia l'assassinio che l'assistenza al suicidio, ma nella pratica è stato introdotto un grado crescente di tolleranza nell'applicazione della legge nel caso di morti medicalmente assistite. Nicklinson ha però cercato di far cambiare la legge affermando che era in conflitto con la Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo, il cui articolo 8 garantisce il rispetto della vita privata e familiare. Il diritto a una vita privata sostenuto dai suoi avvocati significava rispettare il suo “diritto” di commettere suicidio e più in particolare di avere qualcuno che lo aiutasse a farlo senza paura di essere poi perseguito.
Il suo caso è stato respinto, e in risposta Nicklinson ha rifiutato ogni tipo di cibo ed è morto di polmonite poco dopo. La sua vedova è ricorsa in appello alla Corte Suprema, che a giugno ha respinto nuovamente la richiesta. In una votazione 7 contro 2, è stata respinta l'opportunità di un'attività giudiziaria al riguardo, anche se è stata espressa una forte empatia nei confronti del caso in questione. In questo modo, si è giudicato che le questioni riguardavano la discrezione (o, in modo più formale, il “margine di apprezzamento”) del Parlamento britannico (la cui capacità è limitata dalla legge europea).
Malgrado ciò, si è pensato che la questione fosse più adatta al Parlamento che alla Corte, visto che riguardava “elementi importanti di politica sociale e un giudizio di valore morale”, insieme a “una scelta tra due valori fondamentali ma incompatibili, la santità della vita e il principio di autonomia, sensibili ai valori sociali e morali collettivi più fondamentali di una società e sui quali non c'è consenso nella nostra società”. Il processo parlamentare “è il modo migliore di risolvere argomenti che includono questioni di fatto complesse e controverse che sorgono da dilemmi morali e sociali in un modo che permette a tutti gli interessi e a tutte le opinioni di essere espressi e considerati”.
Se non prende direttamente una decisione imponendo un cambiamento delle questioni sostanziali, la sentenza lascia aperta la strada a che il Parlamento applichi delle modifiche alla legge vigente. Il verdetto sottolinea che la giustificazione principale per un divieto assoluto del suicidio assistito “è il rischio percepito per la vita degli individui vulnerabili che potrebbero sentirsi un peso per la famiglia, gli amici o la società e potrebbero, se il suicidio assistito fosse permesso, essere persuasi o convincersi che dovrebbero intraprenderlo, quando in altre circostanze non lo farebbero”.
I membri della Corte reinquadrano poi il problema di fondo dando per scontato il “diritto di morire”, che porta tutta la questione in un contesto di diritti che richiede di conseguenza un giudizio sull'“importanza relativa del diritto di commettere suicidio contro il diritto dei vulnerabili, soprattutto gli anziani e i malati, di essere difesi dalla pressione diretta o indiretta in questo senso”.
Avendo reinquadrato le cose in questo modo, la questione non è più come evitare qualsiasi pressione di questo tipo, perché “è improbabile che il rischio di una simile pressione possa essere del tutto eliminato. La vera questione, in base alla sentenza, è invece “quanto rischio per i vulnerabili è accettabile per facilitare il suicidio da parte di altri che sono liberi da tali pressioni o vi resistono maggiormente”.
A questo punto, non stupisce che sia stato detto in modo molto forte al Parlamento che “un sistema in cui un giudice o un altro funzionario indipendente è convinto che qualcuno abbia un desiderio volontario, chiaro e informato di morire e per questo il suo suicidio deve essere organizzato in modo aperto e professionale fornirebbe probabilmente una maggiore protezione ai vulnerabili di un sistema che coinvolge un avvocato del dipartimento del DPP [Director of Public Prosecutions] che dopo l'evento indaga sull'ipotesi che la persona che si è uccisa avesse un desiderio di questo tipo”.
L'ironia più curiosa in tutta la questione è forse il fatto che le terribili circostanze in cui si trovava Nicklinson non avrebbero rispettato i nuovi criteri. La persona il cui caso ha dato origine a tutto questo processo non sarebbe stata quindi in grado di applicarlo per la semplice ragione che non era un malato terminale. Anche se tremenda, la sua condizione era tale che con cure di alto livello la sua vita avrebbe potuto continuare per molti altri anni, come il famoso scienziato Stephen Hawking ha superato i settant'anni anche se i medici nel 1963 gli avevano lasciato solo pochi mesi di vita.
Tutto ciò indica una seria mancanza di connessione tra ciò che viene proposto ora e molte delle questioni avanzate a sostegno di questo. Ad esempio, si afferma che la scienza medica ha portato a sforzi eccessivi per “far andare avanti le persone ad ogni costo” e sta “costringendo la gente a vivere per molti mesi tra dolori insopportabili”. Indipendentemente dal fatto che queste affermazioni siano vere, il suicidio assistito non sarebbe il rimedio ottimale in nessun caso. Non è chiaro che la legge attuale, e ancor meno la teologia morale cristiana, obblighi a misure straordinarie che provocano sofferenza al paziente, ma il riferimento al costo delle cure allude a una preoccupazione legata al risparmio. Incoraggiare il suicidio come mezzo per risparmiare non sembra una politica particolarmente attraente ed è sicuramente difficile da presentare come nell'interesse del paziente. L'obiettivo di alleviare la sofferenza e quello di risparmiare non sono questioni facilmente conciliabili.
Spesso, poi, si suggerisce che “è la qualità della vita che conta, non il numero di giorni”, ma questa linea di ragionamento, quando viene citata nel contesto della politica sociale, deve implicare un meccanismo di consulenza. Ciò, invece, introduce un'inesorabile linea di analisi utilitaristica che può solo erodere l'enfasi religiosa sul valore e sulla santità di ogni vita umana. Come può la “sfida della qualità” non porre alla fine la domanda relativa a tutte le persone disabili sul fatto che la loro qualità di vita sia tale da garantire di andare avanti?
La domanda verrà posta con un grado di forza proporzionale alla disabilità. Quanto più la persona è disabile, tanto più ci saranno dubbi sulla “decenza” della sua esistenza e più urgentemente verrà preso in considerazione il suicidio assistito in modo “organizzato, aperto e professionale”.
Non è difficile ricordare episodi storici in cui i disabili sono stati presi di mira per l'eliminazione in modo altamente organizzato e professionale. Possiamo supporre che l'unico errore sia stato un fallimento nell'essere aperti al riguardo e forse una certa oscurità nell'assicurare il loro consenso nella misura in cui avevano la capacità di fornirlo?
Quest'ultima è ovviamente un'ulteriore difficoltà in un momento di tanta enfasi sull'uguaglianza di opportunità, perché l'opzione del suicidio dovrebbe essere resa disponibile solo a chi è capace di acconsentire, visto che quanti non sono in grado di fornire il proprio consenso potrebbero essere i più bisognosi del suo presunto beneficio potenziale di alleviamento della sofferenza? Spesso si dice che i morenti dovrebbero “avere la possibilità di scegliere come e quando desiderano porre fine alla propria vita”. Forse questo cattura l'ironia finale della nostra crescente enfasi consumistica sul diritto di scelta dell'individuo – che ora dovrebbe estendersi a massimizzare la scelta nella morte.
Sicuramente lo slogan “una vita senza scelta è una vita che non vale la pena di vivere” non è lontano. Catturerebbe in modo molto netto il peccato di presunzione che in passato ha informato l'obiezione cristiana al suicidio, nella fattispecie che era un atto di contumacia contro Dio nostro Creatore, che è l'unico al quale spetta di decidere il momento della nostra morte. Ciò, invece, indica una differenza di prospettiva fondamentale tra la visione secolare e quella cristiana. Per il cristiano, la morte porta davanti a Dio e alla vita eterna, non è una semplice transizione verso il nulla.
Se questa differenza di prospettiva è molto importante, è ben lungi dall'essere ovvio che c'è tanta differenza quanta indicata da molti nel dibattito sul suicidio assistito circa la proprietà di alleviare la sofferenza. Ciò suggerisce sicuramente che in teoria (e non in pratica una volta che viene concessa la legittimità di assistere il suicidio) tutto concorderebbe sul fatto che se il dolore e la sofferenza possono essere alleviati, allora non dovrebbe esserci bisogno di suicidio. Anche ora, la legislazione proposta offrirebbe sostegno solo a quanti affrontano un'imminente prospettiva di morte (entro sei mesi), non a chiunque solo perché pensa che la vita sia un peso. Ciò vuol dire che l'intero dibattito ruota intorno alla presunta impossibilità, anche se in pochissimi casi, di alleviare questa sofferenza.
Nei fatti, però, c'è il dubbio che le cure palliative non stiano progredendo al punto in cui è possibile questo alleviamento del dolore. Oltre a questo, il principio cristiano del “doppio effetto” significa che non c'è ragione di negare l'alleviamento del dolore anche se ha l'effetto incidentale (pur se non intenzionale) di abbreviare la vita. In base a questo, non c'è alcun bisogno reale di creare lo spettro sinistro di medici autorizzati intenzionalmente a uccidere i propri pazienti o ad “aiutarli a morire” in completa opposizione al giuramento di Ippocrate, secondo il quale non bisogna somministrare medicinali letali.
Purtroppo, ad ogni modo, sembra che prescrivere farmaci letali sia una cosa a cui i legislatori e i politici sono sempre più inclini.
Il rev. Alistair Macdonald-Radcliff è direttore generale del World Dialogue Council.
[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]