La dichiarazione unilaterale di Abû Bakr al-Baghdâdî, non ha convinto molti dottori della legge
di Michele Brignone
Ma che cos’è il califfato e perché la mossa di ISIS ha suscitato tante opposizioni?
«L’imamato è istituito per supplire alla profezia nella salvaguardia della religione e nel governo degli affari terreni». È questa la formula classica con cui il giurista Al-Mâwardî (m. 1058) definisce la natura e gli scopi della massima autorità dell’Islam sunnita: imâm o califfo, a seconda che l’accento cada sul suo ruolo di guida (imâm) o sulla funzione di vicario (khalîfa) rispetto a Muhammad. In realtà, quando Mâwardî scrive il suo trattato sugli statuti del governo nell’Islam, il califfato abbaside di Baghdad ha già iniziato la sua parabola discendente e il profilo e le prerogative che il giurista attribuisce al califfo delineano una figura ideale più che una realtà storica. Eppure, nonostante il califfo sia raramente all’altezza dell’impegnativa raffigurazione che ne viene fornita (tanto che solo i primi quattro – il cui titolo all’epoca era quello di amîr al-mu’minîn e non di califfo –, definiti a posteriori i “ben guidati”, risultano pienamente conformi ai requisiti legali islamici) giuristi e teologi sono pressoché concordi nel pensare che la comunità islamica, la umma, non possa fare a meno della sua guida suprema, garante allo stesso tempo della sua unità e del suo corretto funzionamento socio-politico-religioso.
Così, quando nel 1924 il fondatore della Repubblica turca laica e nazionalista, Mustafa Kemal Atatürk, abolisce l’istituzione califfale, detenuta dal 1517 dalla dinastia ottomana, l’intero mondo islamico si riscopre orfano di un capo che, a onor del vero, verosimilmente aveva già dimenticato di avere. Da quel momento uomini politici, pensatori, giuristi e teologi si interrogano sul da farsi, dando vita a un dibattito da cui emergono sostanzialmente tre posizioni. Secondo lo shaykh ‘Alî ‘Abd al-Râziq, che con le sue tesi fece grande scalpore nell’Egitto degli anni ’20, il califfato è un’istituzione superflua dal momento che esso non troverebbe alcuna giustificazione legale nei testi fondatori. Il giurista ‘Abd al-Razzâq Sanhûrî, ritiene che nel mondo contemporaneo il califfato non possa essere riproposto nelle sue incarnazioni storiche ma debba assumere la forma di una “società delle nazioni orientali”. Il pensatore riformista Rashîd Ridâ pensa invece che il califfato vada restaurato secondo il paradigma della comunità islamica delle origini e individua quale sede più adatta ad ospitarlo la città irachena di Mosul.
Se l’apparizione pubblica, proprio a Mosul, del sedicente califfo Ibrahim (Abû Bakr al-Baghdâdî, leader di ISIS) sia una coincidenza o un caso di profezia che si autoavvera è difficile dirlo. È certo invece che essa non abbia convinto molti importanti leader islamici del mondo.
In una nota pubblicata sul proprio sito, l’Unione Mondiale degli ‘Ulamâ’ (studiosi) Musulmani, il cui ideatore e presidente è lo shaykh Yûsif al-Qaradâwî, influente pensatore legato ai Fratelli musulmani, dichiara la proclamazione del califfato giuridicamente nulla in base a tre argomenti: 1) non basta l’annuncio di un gruppo qualsiasi ad istituire il califfato, perché il califfo deve ottenere l’investitura dalla umma attraverso i rappresentati di quest’ultima; 2) nell’Islam la gestione dello Stato deve avvenire attraverso il principio della shûrâ (consultazione) e non scaturire da azioni unilaterali; 3) il califfato non è legittimo se invece di unificare la umma è un ulteriore elemento di divisione tra i gruppi che ne fanno parte. In generale l’Unione degli ‘ulamâ’ non contesta il principio della restaurazione del califfato («tutti sogniamo il califfato islamico e speriamo nel profondo dei nostri cuori che venga istituito al più presto», dice la nota) ma afferma che «i grandi progetti» hanno bisogno di lunghe riflessioni e di un’adeguata preparazione.
Il vice-presidente dell’Unione degli ‘ulamâ’, lo studioso marocchino Ahmed Raysûnî, ha aggiunto alcune precisazioni in un testo apparso successivamente a sua firma. Dopo aver riportato gli argomenti già addotti dal comunicato dell’Unione, Raysûnî ha specificato che non bisogna trasformare la questione del califfato in un dibattito puramente nominale, visto che la legittimità di un sistema politico deriva dalla sua capacità di realizzare gli «obiettivi della sharî‘a» e non dal modo con cui esso si definisce. Ha inoltre aggiunto che l’uso della spada è giustificato quando occorra difendersi dalle aggressioni o respingere gli occupanti, ma non se serve per scopi egemonici e di prevaricazione. Sulla stessa lunghezza d’onda è Râshid al-Ghannûshî, capo del movimento islamista tunisino al-Nahda, e anche lui membro dell’Unione degli ‘ulamâ’. Sul tema specifico del califfato l’islamista tunisino si è limitato a condividere e a riportare la posizione di Raysûnî, ma, prima in un’intervista rilasciata al quotidiano panarabo al-Quds al-‘arabî e poi nel sermone del venerdì pronunciato il 4 luglio scorso, ha preso spunto dai fatti iracheni per alcune considerazioni politiche più generali sulla situazione del mondo arabo e in particolare della Tunisia. Secondo Ghannûshî, se nelle democrazie mature può funzionare il metodo maggioritario, nei sistemi politici che vivono una fase di transizione esso rischia di favorire settarismi e partigianerie e va perciò sostituito con quello che lui definisce un metodo «consensuale». Ecco perché, nel delicato frangente iracheno, la proclamazione unilaterale del Califfato è un fatto «sconsiderato».
Qaradâwî, Raysûnî e Ghannûshî, pur con accenti diversi, condividono l’idea di una costruzione graduale della città islamica. È dunque comprensibile la condanna da parte loro dell’iniziativa dello Stato Islamico. Ma tra i critici di Abû Bakr al-Baghdâdî e della sua organizzazione ci sono anche ideologi marcatamente salafiti e jihadisti e in particolare quelli della “vecchia guardia” legati ad Al-Qa’ida. Tra questi occupa un posto di rilievo l’ideologo giordano-palestinese Abû Muhammad al-Maqdisî. Poco noto ai musulmani estranei ai circoli salafiti e pressoché sconosciuto in Occidente, al-Maqdisî è in realtà uno dei più influenti pensatori jihadisti del mondo (è ideatore del sito www.tawhed.ws, la più grande libreria online di letteratura islamica radicale, e ispiratore, tra gli altri, dell’ex leader di al-Qa’ida in Iraq Abû Mus‘ab al-Zarqâwî). Già nel novembre scorso Maqdisî aveva contestato le ambizioni di Abû Bakr al-Baghdâdî e nella disputa allora tutta siriana tra ISIS e Jabhat al-Nusra aveva preso posizione a favore di quest’ultima. In una riflessione pubblicata il 12 luglio scorso sul suo sito, l’ideologo giordano torna ad attaccare duramente lo Stato Islamico accusandolo di creare divisioni non solo tra i musulmani, ma tra i ranghi stessi dei militanti jihadisti. «Il califfato – scrive Maqdisî – deve essere un rifugio e una garanzia per tutti i musulmani, non una minaccia o un’intimidazione».
Al di là di ogni considerazione sulle fratture e le rivalità interne al fronte jihadista, su cui riferisce nell’ultimo numero di Oasis un articolo di Cole Bunzel, un fatto colpisce: che chi fino a ieri poteva essere considerato un pericoloso seminatore d’odio e di violenza appaia oggi come un esempio di moderazione la dice lunga sulla natura e i metodi dello Stato Islamico.
Tra le voci che si sono levate per commentare la proclamazione del califfato da parte dello Stato islamico manca quella di Al-Azhar. La prestigiosa moschea-università cairota si è per il momento limitata a pubblicare un comunicato sulla situazione irachena il 23 giugno scorso, dunque prima della proclamazione, in cui invitava gli iracheni a tralasciare gli «interessi partitici, settari o etnici e a ricercare immediatamente una formula consensuale nuova con la quale salvare l’Iraq e il suo popolo da ogni forma di estremismo e dalle forze straniere in agguato». Si sono però espressi, a titolo personale, alcuni professori dell’Università egiziana, interpellati dal quotidiano libanese Al-Safîr. Ahmad Karîma, professore di sharî‘a, ha affermato per esempio che nella storia islamica il califfato non ha mai avuto una dimensione politica, ma soltanto la missione della predicazione e, richiamando le idee di Sanhûrî, ha aggiunto che «quando gli arabi e i musulmani avranno un mercato economico come quello dell’Unione europea, una moneta unica come l’Euro, un’entità politica e militare, e quando saranno rimossi gli ostacoli all’ottenimento dei visti, allora si potrà parlare di un califfato».
Insomma, più che simbolo dell’unità della umma, il califfato appare oggi l’emblema della sua divisione e delle sue convulsioni, come peraltro già accaduto nel corso della storia islamica. Nel suo La tragédie de l’Islam moderne, lo studioso tunisino Hamadi Redissi scrive che «L’islam ha ormai molti volti perché non ne ha più uno suo. […] Tutti parlano in nome dell’Islam, ma sicuramente non dello stesso Islam; ognuno lo reinventa nel presente».
La questione califfale sembra decisamente dargli ragione.