Per comprendere la Resurrezione serve inserire l’uomo nella relazione che meglio lo spiega e lo esprime: CristoVolevo porre una domanda riguardo alla formula «Credo nella risurrezione della carne». Ma è necessaria la carne affinché si compia la risurrezione? La risurrezione non avviene senza il corpo fisico?
Risponde don Alessandro Clemenzia, docente di Teologia fondamentale alla facoltà teologica dell'Italia centrale.
Per comprendere il significato della «resurrezione della carne», che fa parte dell’intelligenza della fede ecclesiale sin dai primi secoli, e coglierne il nucleo fondamentale, è necessario inserire l’uomo all’interno di quella relazione che meglio lo spiega e lo esprime, vale a dire: Cristo. Egli è la rivelazione definitiva di Dio all’uomo e anche dell’uomo all’uomo. La pretesa cristiana non è di poco conto: solo Cristo può dire chi sia l’uomo. Questo spiega perché il significato della resurrezione della carne vada letto e compreso in stretto rapporto alla resurrezione di Cristo.
La resurrezione, infatti, culmine salvifico (e teologico) dell’esperienza del Figlio di Dio, è la rivelazione ultima di Dio e, proprio per questo, la pienezza del compimento della vita umana.
Come si trova nelle più antiche formulazioni di fede, la Chiesa crede «la resurrezione della carne». Per rispondere alla domanda posta, è bene spiegare cosa si intenda con questa espressione. Al di là della motivazione storica, in risposta al pensiero gnostico, per cui era necessario affermare la resurrezione del corpo, ciò che la Chiesa ha sempre voluto intendere con questa formulazione è proprio che ad essere resuscitata (come atto di Dio) è la persona nella sua globalità. In questo senso, la corporeità è indice dell’individualità, vale a dire di tutta la persona. Il corpo resuscitato, infatti, è quello terreno, non nel senso di una riassunzione del corpo morto, ma come compimento del proprio «io». Già questo spiega come nella resurrezione all’uomo sia conferita la pienezza del proprio essere, la sua glorificazione, proprio perché, nel suo riferimento all’evento pasquale, Cristo non toglie nulla all’umano, ma, anzi, lo restituisce a se stesso.
Nella resurrezione della carne, tutti gli uomini, elemento straordinariamente interessante, «partecipano» pienamente alla resurrezione di Cristo: sono innestati in essa. In una Lettera della Congregazione della Dottrina della Fede del 1979, su alcune questioni concernenti l’escatologia, è scritto: «La Chiesa intende tale resurrezione come riferentesi all’uomo tutt’intero; per gli eletti questa non è altro che l’estensione agli uomini della resurrezione stessa di Cristo». Bellissima espressione: agli uomini non accade qualcosa di simile a ciò che è avvenuto in Cristo (per imitazione), ma ciò che è avvenuto a Cristo, la stessa dinamica, si estende a tutti gli uomini: è l’unico e medesimo evento per l’uno e per gli altri.
Nella stessa Lettera è scritto: «Né le Scritture né la teologia ci offrono lumi sufficienti per una rappresentazione dell’aldilà». La Chiesa è consapevolmente umile e prudente nell’affrontare questo discorso, eppure domanda di tenere conto, simultaneamente, di due elementi distinti: il primo, è quello di credere che ci sia una continuità tra la vita presente in Cristo e la vita futura (proprio perché è sempre il nostro «io» il destinatario di quest’azione divina della resurrezione); il secondo, è di credere ad una rottura tra presente e futuro, per cui, tornando al discorso sulla resurrezione della carne, non si tratta di una rianimazione del cadavere, ma di una nuova condizione della nostra umanità.
Prima di concludere vorrei mettere in luce un altro aspetto fondamentale che l’insegnamento della Chiesa ci offre in questo ambito. La difficoltà che molti riscontrano nell’accogliere tale dottrina, non tanto in riferimento alla possibilità di un aldilà, quanto all’accettazione di una resurrezione della carne, può dipendere in parte da un’interpretazione negativa che si attribuisce alla carnalità. In questo senso, la difficoltà o meno di credere la «resurrezione della carne» è la cartina di tornasole del nostro modo di cogliere l’umano. Questo articolo del Credo è un invito esplicito a non censurare nulla della propria umanità, neanche il peggio che possa averla «segnata»: ferite, paure, sconfitte. Proprio perché la resurrezione di Cristo si estende alla totalità della persona, anche la carne, con tutta la debolezza che la contraddistingue, entrerà in Dio. Chissà che questo «credere la resurrezione della carne», più che significare una chiarezza assoluta del futuro, non sia, tra le altre cose, un invito ad accogliere chi siamo nel presente. Come afferma la Lettera già menzionata: «Se la nostra immaginazione non vi può arrivare, il nostro cuore vi giunge d’istinto ed in profondità».
Chi ha invocato Gesù sulla croce: Dio o Elia? – "Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni…» Alcuni dei presenti dicevano: «Ecco chiama Elia!»"(Marco 15, 34-35)
Sorprende un po’ questa confusione che si genera negli spettatori durante quel momento tragico della vita terrena di Gesù. Egli è lassù, sul colle detto Golgota; stanno scoccando gli ultimi istanti della sua esistenza in mezzo a noi. Egli ha provato tutta la gamma oscura della sofferenza: dalla paura della morte (cfr. Marco 14,36), all’abbandono e al tradimento dei suoi amici, nel peso della solitudine; dalle torture dei militari romani fino all’irrisione della folla.
Ora Gesù sta per precipitare nei due abissi estremi, il silenzio di Dio che non risponde alle sue invocazioni e la morte, una fine brutta secondo Marco: «Lanciando un forte urlo, spirò» (15,37). Le sue ultime parole sono un grido angosciato che l’evangelista ci riferisce nella lingua popolare di allora, l’aramaico. Si tratta dell’avvio del Salmo 22: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni», tradotto subito in greco: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Un’osservazione filologica. L’invocazione Eloì non è aramaica, come il resto della citazione, perché dovrebbe essere Elahî: forse Marco è stato trascinato dall’influsso dell’ebraico Elohîm, “Dio”.
Come hanno potuto però i presenti scambiare quelle parole gridate come un’implorazione a Elia? Questo intoppo può apparire come la traccia di una memoria storica di quei momenti convulsi. Il profeta Elia, infatti, oltre a essere considerato come il precursore redivivo del Messia (Matteo 17,10-13), secondo la tradizione giudaica era venerato come il protettore degli agonizzanti e delle persone in grave pericolo di vita. I presenti, udendo quel grido straziato di Gesù, potevano scambiare la prima parola (Eloì o Elahî o, in ebraico, Elì) come un’invocazione del profeta sulle labbra di Gesù moribondo.
Certo è che questo equivoco come, a maggior ragione, il versetto salmico rivelano la profonda e autentica “incarnazione” di Gesù, nostro fratello anche nella tragedia dell’assenza di Dio, muto davanti alla voce del sofferente. Tuttavia non si può classificare quel grido come un segno di disperazione e quasi di incredulità, perché – secondo l’uso giudaico – citare l’incipit di un testo sacro vuol dire assumerne la totalità.
E il Salmo 22 inizia con un lamento angosciato simile a un De profundis ma finisce con un inno di grazie, di gloria e di lode al Signore re, una specie di Magnificat o Te Deum. Non si spezza, quindi, nel cuore di Gesù morente il filo estremo della fiducia. Esso sarà esplicitato da Luca che registra questa estrema invocazione di Cristo, anch’essa desunta dai Salmi: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Luca 23,46; cfr. Salmo 31,6).