La lotta alla Mafia si fa restandogli di fronte educandone i figli al Vangelo e non alla mortedi Luigi Santambrogio
Capirci qualcosa nella storiaccia di Oppido Mamertina è impresa difficile, ma pretendere la verità sulla processione con la statua della Vergine delle Grazie, non è più cosa di questo mondo. A seconda di chi la racconta, la faccenda ha dieci, cento, mille versioni differenti. C’è stato o no l’inchino della statua davanti alla casa del boss? E se sì, chi è lo Schettino oppidano che ha impartito ai portantini lo sciagurato diversivo? Domanda che vale un intero processo e che rischia di diventare il tormentone dell’estate: i carabinieri s’erano subito sfilati, il sindaco non ha visto e il parroco, a tutt’oggi, non è ancora pervenuto. Nel polverone, poi, si sono fiondati i soliti giornalisti arruffapopoli, scrittori del ramo, opinion maker e criminologi assortiti. Compreso il principe dei tuttologi: lo scortato Saviano che dal paese di Gomorra elargisce a gettone le sua perle di saggezza mafiologica. Imparata per sentito dire e senza neppure passare per Scampia.
A far luce, forse, ci penserà la Dda di Reggio Calabria, che sull’inchino ha aperto ufficialmente un fascicolo: il reato ipotizzato è di associazione a delinquere di stampo mafioso. La magistratura, scrivono i giornali, avrebbe immagini ed informative dettagliate su quanto accaduto, prima, durante e dopo la processione e sono in corso anche le identificazioni di quanti, con ruoli sia pure diversi, erano al seguito della statua. Il Comune si costituirà parte civile e, in questo fervore di legalità mancano solo i Ris a prendere impronte e cercare tracce di Dna sulle banconote lasciate ai piedi della statua. Oppido Mamertino, insomma, come la nuova linea Maginot della guerra alle cosche e l’inchino mariano, semmai ci sia stato davvero, una sorta di Capaci ventidue anni dopo.
Pure la Chiesa ha improvvisamente alzato la guardia contro le commistioni sacrileghe, le feste religiose con la regia niente affatto occulta dei clan, Cresime e Battesimi come viatici per affiliazioni criminose, processioni piegate a sfilate in onore dei boss. Monsignor Salvatore Nunnari, presidente della Conferenza episcopale calabrese, ha dichiarato che i preti presenti avrebbero dovuto lasciare la processione. «Mi dispiace che i preti non abbiamo avuto il coraggio di andare via, di scappare da quella processione». Per l’arcivescovo di Cosenza, «quando i carabinieri se ne sono andati, anche i sacerdoti dovevano abbandonare la processione. Avrebbero dato un segnale e di questi segnali la Chiesa ha bisogno». Nunnari invita i suoi preti a non avere paura: «Bisogna avere il coraggio di fermare le processioni, dal momento che può capitare che «sotto la vara ci sia il mafioso di turno che poi fa il capo». Se fosse lui vescovo di quella città non avrebbe dubbi: «Per un po’ di anni non farei processioni e credo che sarebbe cosa gradita alla Madonna».
Ecco, dopo l’abolizione di padrini e madrine proposti dal vescovo di Reggio Calabria, ora scatta il divieto di processioni: niente più Santi e Madonne portate a spalla per le vie del paese, cancellate le feste per i Patroni e stop anche a quella del Corpus Domini. Assembramenti sediziosi, da sciogliere per sospette infiltrazioni mafiose e commissariare in attesa di giudizio. Tutto giusto, per carità: con un’associazione come la mafia che uccide nemici e innocenti, organizza stragi e vive di malaffare e violenze, la Chiesa non può certo tacere o fingere di non vedere. A costo di rinunciare a qualche manifestazione di pubblica fede se utilizzate a scopi criminali. Scelte radicali e dolorose, ma a volte necessarie. Non esistono solo gli atei devoti, a volte pure i mafiosi lo sono: adorano in modo idolatrico le processioni, il culto di certe Sante, l’ostentazione di simboli e immagini sacre, esibite e custodite perfino nei loro covi. Le mafie, come afferma il procuratore Nicola Gratteri, «si nutrono di consenso popolare, per esistere, hanno bisogno della gente: sono presenti lì dove c’è da gestire denaro e potere, dove ci sono grandi folle, come nelle manifestazioni sportive ma soprattutto nelle e vicino alle processioni religiose».
Tuttavia, quell’invito ai sacerdoti ad avere “il coraggio di scappare” suona un tantino strano, ma soprattutto orfano del suo scopo. Forse i giornali hanno travisato le parole del vescovo Nunnari, ma quel “coraggio della fuga”, al di là di ogni buona intenzione suona ambiguo, quasi un calembour, al limite della comicità. E tutto il dibattito (più mediatico che dottrinale) sulla scomunica ai mafiosi, pare riportare la questione indietro di secoli. Nel suo ormai celebre discorso, Papa Francesco non ha mai detto quello che i media o qualche improvvisato esegeta gli ha fatto dire. Non che la scomunica sia scomparsa dai codici o che la Chiesa abbia scelto la strada del buonismo, ma il Papa ha detto qualcosa di più: ha ricordato che la sola denuncia non basta, che occorrono un abbraccio e un incontro con l’uomo, che c’è bisogno di annunciare il Vangelo come risposta al male. In altre parole, servono più evangelizzazione e lavoro educativo.
«Resta prioritario invece che la Chiesa prosegua nella sua opera pastorale educativa e preventiva, in un comune sforzo di nuova evangelizzazione che comporta attività pastorale, annuncio biblico, dottrinale ed esercizio di opere di misericordia». A riaffermarlo è l’arcivescovo Vincenzo Bertolone, postulatore della causa di beatificazione (voluta da Benedetto XVI) di don Pino Puglisi, il sacerdote assassinato da Cosa Nostra a Palermo 21 anni fa. «Quello delle processioni infiltrate dalle cosche, delle confraternite piegate ai voleri dei boss, della religiosità popolare strumentalizzata dalle cosche», avverte il vescovo, «è fenomeno antico e ricorrente, ma non per questo inevitabile e men che meno accettabile. In ogni angolo del mondo. La tradizione popolare è un tesoro da custodire e da valorizzare come una manifestazione della fede; eventuali incrostazioni, se non rimosse, rischierebbero di minarne l’autenticità. È, per molti, versi, una questione di mentalità. Ma la mentalità si cambia non vietando o denunciando, ma soprattutto seguendo seri percorsi formativi come unico antidoto alla "non cultura" rappresentata dall’ignoranza, dalla tracotanza, dal disprezzo, ingredienti tipici della ricetta mafiosa».
Questo è anche il nocciolo dell’insegnamento di don Puglisi, oggi più che mai utile per capire il da farsi. Il sacerdote non sopportava la retorica dell’antimafia, lo sdegno limitato «ai cortei, alle denunce, alle proteste. Tutte queste iniziative hanno valore ma se ci si ferma a questo livello sono soltanto parole». «Don Pino finisce nel mirino della mafia», ricorda il suo postulatore, «perché prete, per il suo ministero sacerdotale, e quindi alfiere di legalità e giustizia, ma anche e soprattutto convinto testimone della Parola di Dio e della forza del Vangelo. Proprio per questo fu inviso ai mafiosi, portatori di un ateismo materiale diventato esso stesso religione con al centro il dio del potere, opposto al Dio dei credenti».
In passato la Chiesa assecondò o tacque sulle idolatriche dei mafiosi e molti i parroci che non videro contraddizione tra l’appartenenza religiosa dei fedeli e il loro essere a servizio dei clan. Strappare i Santi alla mafia, compreso Gesù Cristo che nella devozione distorta dei criminali è assimilabile a un qualsiasi bandito messo ai ceppi dagli sbirri, fermare il killer che prega e sp
ara, convertire il mafioso che bacia il crocifisso e strangola, sbugiardare davanti al popolo il boss che dal carcere di massima sicurezza innalza altarini alla Madonna, legge e annota la Bibbia, non è cosa che si fa in un giorno. E neppure il miracolo può avvenire vietando o sconfessando, per decreto e senza discernimento, uomini e tradizioni. Una Chiesa complice e silenziosa faticherà a cambiare solo sulla spinta di un’altra che denuncia e scomunica. In mezzo c’è un immenso spazio a disposizione per un’opera più grande e più viva, per una comunità cristiana capace di giudicare e scegliere, ma soprattutto, come insiste Francesco, di abbracciare e ridare speranza agli uomini. Mafiosi compresi.