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Il paradosso del lavoro come ricatto

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Città Nuova - pubblicato il 08/07/14
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Alla ricerca della resistenza inaspettata dell’umano in un centro commerciale al tempo della disoccupazione crescentedi Giustino Di Domenico

Di fatto oggi, in Italia, non solleva scandalo lavorare la domenica e i giorni festivi. Anzi è vero il contrario. Ovviamente non stiamo parlando di coloro come, ad esempio, i medici, gli infermieri o i pompieri prestano un servizio indispensabile per la collettività.

Interi nuovi quartieri sono costruiti per non avere altri luoghi di socialità che il centro commerciale. Metteteci una chiesa dentro e la cosa è fatta. Anche il bisogno spirituale è soddisfatto (fa sempre bene, dicono alcuni benpensanti). Una cappellina aperta ai diversi culti potrebbe trovare spazio anche dentro i moderni stadi di calcio contemplati secondo il modello del tempio commerciale che arricchisce i patron miliardari di quello che è stato uno sport popolare giocato per le strade e nelle piazze. È con il governo sui tempi comuni che si esercita il reale potere sulla vita delle persone e delle famiglie. E quindi, al di là delle parole e dei pronunciamenti formali, le tracce diresistenza dell’umano, e quindi dell’autentica ricerca di senso, vanno colte fuori dagli schemi consolidati.

Sono pochi i lavoratori e le lavoratrici, come le commesse, che riescono ad esprimere un aperto dissenso al lavoro festivo con manifestazioni improvvisate che non passano sulla stampa ma ricevono solo il sostegno dei centri sociali e del sindacalismo di base. Sono scaramucce che si consumano in poco tempo con volantinaggi non autorizzati interrotti con l’intervento della vigilanza privata richiamata da qualche direttore scrupoloso.  Tutto avviene in contesti anonimi e sempre uguali dell’architettura degli spazi commerciali.  E tutto avviene nel segno della precarietà. Dal lavoratore flessibile al vigilantes fin al direttore vincolato a rispettare gli standard di vendita in contrapposizione alle catene concorrenti. Formalmente siamo davanti a degli adulti consenzienti che hanno stipulato liberamente dei contratti di lavoro o di collaborazione, ma è facile comprendere i margini di libertà reale che possono esprimere una cassiera o un banconista chiamati a coprire il turno festivo con la valanga dei clienti attesi in quella giornata. Come si dice abitualmente: «fuori dalla porta ce ne sono tanti disposti a prendere il tuo posto!».   

Poco sembra importare, inoltre, l’effetto di desertificazione di tutti quegli esercenti a conduzione familiare che non possono competere con la grande distribuzione organizzata. Un meccanismo noto da tempo, come dimostra uno studio della Chicago dalla Loyola University, citato recentemente da Federico Rampini, secondo cui «entro diciotto mesi dall’apertura di un nuovo ipermercato Walmart, sono falliti 82 operatori della distribuzione sui trecento attivi nel vicinato. Per due posti di lavoro che crea, ne distrugge tre». Quale logica seguano gli estensori dei decreti governativi che liberalizzano gli orari dei negozi è chiara se si presta attenzione alla tendenza ricorrente a riformare l’articolo 41 della Costituzione che dichiara la libertà dell’iniziativa economica privata con l’avvertenza che «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

Come ha detto mons. Giancarlo Bregantini «non facciamo che parlare di persona e di famiglia, ma se i ritmi di lavoro impediscono alle persone e alle famiglie di stare insieme almeno un giorno alla settimana è segno che il lavoro, da strumento di dignità, si è trasformato in strumento di ricatto».

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