L’amicizia personale e intellettuale tra il filosofo e il Papa emeritoChi è Marcello Pera? Settantunenne filosofo e politico italiano, è noto per l’amicizia nata nel periodo di presidenza del Senato (2001-2006) con l’allora cardinale Joseph Ratzinger. E’ l’amicizia -che persiste e si è tradotta in un incontro anche in questo mese di giugno presso il Monastero Mater Ecclesiae dentro il Vaticano – tra un non-credente e un credente, ambedue preoccupati per un’Europa che misconosce la sua ‘anima’ cristiana, essendo ormai alla deriva nel gran mare relativista. La collaborazione reciproca si è espressa soprattutto in tre saggi: Senza radici (2004, Mondadori, scritto in maniera alterna tra i due su temi come Europa, relativismo, cristianesimo e islam), L’Europa di Benedetto (2005, Cantagalli, di Joseph Ratzinger con introduzione di Marcello Pera), Perché dobbiamo dirci cristiani (2008, Mondadori, di Marcello Pera con lettera introduttiva di Benedetto XVI). Abbiamo incontrato Pera a Roma, al primo piano di Palazzo Giustiniani, nell’ampio ufficio che gli è assegnato come presidente emerito del Senato. E con lui abbiamo parlato dell’origine e dello sviluppo dell’amicizia, dei suoi contenuti, della rinuncia al Papato del suo interlocutore, della triste condizione odierna dell’Europa politica e culturale…
Senatore Pera, come ha conosciuto il cardinale Joseph Ratzinger?
Andai a trovarlo nel suo ufficio di Prefetto della Congregazione della dottrina della fede, essendo stato impressionato da molti suoi scritti. Mi aveva colpito in particolare il suo libro Fede, verità, tolleranza. Non pensavo che il relativismo fosse penetrato anche in alcuni settori della teologia cristiana e lui mi illuminò e mi preoccupò. Se anche i cristiani rinunciano all'idea di verità, a che cosa più si riduce la nostra religione? E poi: quali conseguenze ha per la nostra identità un cristianesimo circoscritto solo ad una “narrativa”, come oggi si dice, buona quanto qualunque altra?
Che cosa L’ha colpita subito del cardinale?
L’uomo e l’intellettuale. Avvertii subito una personalità del massimo livello. Lucido, chiaro, diretto, con un pensiero sistematico e molto articolato. Considera con attenzione e rispetto il suo interlocutore e non si nasconde alcun problema. Parla laicamente, come scrive, non per omelie o catechismo, ma per concetti e ragionamenti rigorosi. Ascolta le domande e non si sottrae a nessuna difficoltà. Mi sono sempre sentito a mio agio, come davanti ad un maestro. In vita mia, ne ho conosciuti alcuni di prima grandezza, come Popper, e lui è uno di quelli. Non è solo un teologo, ma un grande filosofo, aperto, critico, profondo, e con una vasta cultura in molti settori. E ha una dote personale che solo i grandi posseggono: è dotato di modestia intellettuale, che gli consente di sposare lo spirito critico e anche autocritico con la verità in cui crede. C’è poi l’aspetto personale: è cortese, disponibile, attento, scrupoloso. E soprattutto franco. Posso dire che, appena cominciammo a parlare della questione del relativismo, che era l’oggetto del mio primo interesse per lui, io osservai con cautela che a me sembrava che occorresse da parte della Chiesa più forza di reazione. Lui mi stupì perché mi rispose: “Molti nostri vescovi mancano di coraggio”. Io lo pensavo, ma lui lo disse.
Come si sono sviluppati i rapporti tra voi?
Ci siamo rivisti più volte, mai discutendo di questioni politiche in senso stretto. Un tema allora all’ordine del giorno anche in parlamento era l’Europa. E un giorno, proprio sulla situazione culturale e spirituale dell’Europa, lo invitai a tenere una conferenza presso la biblioteca del Senato. E’ così che nacque Senza radici: una conversazione non più privata, ma pubblica e scritta.
Quali i temi su cui vi siete trovati in consonanza?
Oltre all’Europa, che anch’io consideravo e considero un deserto spirituale, il rapporto fra laici e credenti. Anche questo è un tratto caratteristico del lavoro di Ratzinger: parlare con i laici e sfidarli. Su tutte, la domanda per il laico è: su che cosa fonda quei valori a cui lui dice di essere particolarmente legato? In che modo li argomenta e difende, oggi che sono attaccati dall’interno e dall’esterno? Conosciamo la risposta, che è sempre la stessa dall’Illuminismo in poi: la ragione. Già, ma che cosa offre la ragione quando in discussione è proprio la ragione stessa? Se la ragione di un gruppo arriva a concludere che è “razionale” consentire, poniamo, l’aborto e la ragione di un altro gruppo lo nega, a quale ragione si deve far ricorso? E quando la ragione europea si trova sfidata e attaccata, poniamo, dalla ragione islamica, a chi possiamo rivolgerci e come possiamo risolvere la disputa? Non basta dire “dialogo”, come non solo i laici, ma anche tanta parte della Chiesa oggi dice: il dialogo non è un dialogo se non esiste un criterio per dialogare. Questo criterio è costruito dalla ragione o la ragione lo scopre? E se lo scopre, in che modo? Con un’illuminazione? E’ su questo punto che Ratzinger, che pure è tanto amante della ragione come l’ultimo dei laici, porta il terreno della discussione sulla verità. E così si torna ai limiti del relativismo. Problemi affascinanti, e della massima attualità politica, anche se apparentemente non sembra.
I rapporti sono proseguiti anche quando Joseph Ratzinger è divenuto Papa? Con quali modalità?
Sì, ci siamo visti anche dopo, e sono continuati nel tempo. Lo ringrazio ancora e gli sarò sempre debitore per le occasioni di incontri riservati che mi ha concesso. Non era facile per lui, ma è sempre stato generoso di sé. Non lo dimenticherò mai. Così come non dimenticherò mai la prefazione che egli volle scrivere al mio libro Perché dobbiamo dirci cristiani. Sono un paio di pagine, ma se uno le legge con attenzione ci può trovare un tesoro.
La rinuncia di papa Ratzinger L’ha sorpresa, colpita? La ritiene un atto razionale? Secondo Lei quali le conseguenze principali di tale atto?
Mi ha amareggiato, ma non sorpreso. Non ci si sorprende quando uno diventa vecchio o perde le energie, al più ci si rammarica. Ma ho capito il suo gesto, o ho ritenuto di capirlo. È come se si fosse rivolto in ginocchio al Signore e avesse detto. “Signore che cosa vuoi da me? Come posso servirti, ora che le mie forze diventano impari? In quale altro modo posso portare la tua Croce e soddisfare le esigenze che mi hai posto sulle spalle? Come posso servire la tua Chiesa, in un momento per essa così difficile, se le mie energie non bastano a correggerla?”. Molti, anche nella Chiesa, stentano a farsi una ragione della sua rinuncia, e io comprendo anche loro. Ma mi sembra una pigrizia intellettuale: siccome non si è mai fatto, non può farlo neppure lui. Questa pigrizia può diventare arroganza, bisogna invece che si trasformi in un atto di fede, come lo è stato per Benedetto XVI. Quanto alle conseguenze, non se ne può parlare, semplicemente perché quello del Papa è stato un atto profetico, e la profezia non si misura con i calcoli del tempo breve. E’ un disegno di Dio.
Lei ha ancora rapporti con il Papa emerito? Come si configurano?
Sì, lo vedo ancora, e per me è una grande gioia, una benedizione. Il nostro dialogo e la nostra comunione intellettuale continuano. E mi fa un immenso piacere vederlo nel suo appartamento e scambiare opinioni con lui. Ha la stessa lucidità intellettuale di sempre.
La vostra amicizia è tra l’altro molto ben espressa dal già citato Senza radici, il saggio di dieci anni fa con contributi alterni su Europa, relativismo, cristianesimo e islam. Da quel 2004 è cambiato qualcosa sotto questi aspetti in Europa? In meglio? In peggio?
È cambiata in particolare una cosa: di quelle questioni, l’islam, i rapporti fra le culture, l’identità europea, il ruolo del cristianesimo, non si discute pressoché più, né nel mondo politico, né in quello della Chiesa. Ha prevalso la paura, la mancanza di coraggio. Si gira la testa e si tira avanti, come se nascondere i problemi contribuisse a risolverli. E questo proprio mentre, per merito soprattutto di Benedetto XVI, gli stessi Capi di governo europei avevano cominciato a interrogarsi. Ricorda il laico Sarkozy venire a Roma e dire che la Francia è una nazione cristiana e che la laicità non è antireligiosa? Magari non ci credeva sinceramente, ma intanto poneva il tema. Oggi nessuno dice più neppure cose simili: si teme di sconvolgere il dialogo, che significa incontro fra muti, o più precisamente incontro fra chiunque abbia un’opinione forte di sé e parli e gridi e l’Occidente che non ne ha e non vuole averne nessuna, e perciò sta zitto. Non si scandalizza neppure più del martirio crescente dei cristiani nel mondo.
Come valuta i risultati delle elezioni europee di fine maggio dal punto di vista della problematica antropologica? Possiamo realisticamente attenderci che la nuova Commissione europea e il suo Parlamento si occupino di vita, famiglia, educazione secondo la prospettiva propria sia di Joseph Ratzinger che di Marcello Pera?
Spero proprio che la Commissione e il Parlamento europeo non si mettano a parlare di questi temi, considerando che cosa uscirebbe da quelle bocche. Non vedo nessuno in Europa che voglia anche minimamente occuparsi di questioni di identità e civiltà. Nessuno che abbia il coraggio di richiamarsi alla tradizione cristiana. E se qualcuno lo fa, gli altri, cioè la maggioranza dei perbenisti, dei dialoganti, degli accomodanti, lo zittiscono definendolo “xenofobo” o “razzista”. Magari in molti casi lo sono davvero, ma come si fa a non capire che proprio tacere sulla nostra identità e nasconderla come fosse una colpa, genera precisamente quel tipo di xenofobia? Niente, l’Europa oggi parla di “parametri” per uscire dalla crisi economica, neanche mette in relazione questa crisi con quella culturale e quella spirituale. Come se un popolo, centinaia di milioni di persone, fosse una variabile da aggiustare, il dato di un bilancio da correggere. Che disastro! E che disastro aumentato, se il nuovo spirito europeo è penetrato anche negli Stati Uniti!
Ci sono forze – vecchie e/o nuove – che nel nuovo Parlamento europeo potrebbero aiutare a far sì che tale prospettiva venga condivisa maggiormente?
L’ho già detto, ci sono molti “xenofobi”. Ma siccome con gli xenofobi non si discute, succede che gli xenofobi diventano tali davvero e gli altri, con la scusa della xenofobia, tacciono. Oggi la Germania è guidata dalla signora Merkel e l’Italia dal signor Renzi, capi di due grandi famiglie politiche europee che hanno responsabilità di governo. Avranno mai saputo e si ricorderanno che i loro padri, Adenauer e De Gasperi, parlavano di una “Europa cristiana”? Che in quella identità essi vedevano la strada per combattere seriamente i nazionalismi, le xenofobie, le paure? Me lo auguro. Quanto a me, sono pessimista e sono molto preoccupato. Gira per l’Europa un brutto spiffero e mi ricordo che la prima guerra mondiale scoppiò nel cuore del Vecchio Continente quando nessuno la voleva e se l’aspettava. Eppure, quando detonò un revolver, eravamo al meglio della nostra civiltà: quattro anni dopo, il mondo che sopravvisse al cimitero era tutto cambiato.
L’ultimo giorno di mandato la Commissione europea uscente ha rifiutato che la petizione pro-embrione “Uno di noi” (che ha raccolto non meno di 1.800.000 firme in quasi tutti i Paesi UE) sia esaminata dal Parlamento. Come valuta tale decisione?
Che cosa posso rispondere? Che se un’analoga petizione pro-matrimonio omosessuale o pro-eutanasia fosse presentata anche con poche firme, passerebbe subito. È già accaduto. D’altro canto, non si tratta di “conquiste di civiltà”, come dicono?
Il mattino seguente la Camera dei deputati italiana – presieduta da una fervente ammiratrice di papa Francesco – in gran fretta e stravolgendo l’ordine del giorno ha approvato il cosiddetto ‘divorzio-express’. Sia in sede europea che nel Parlamento italiano gli applausi per papa Francesco si sprecano. E tuttavia, quando si tratta di votare in materia antropologica, tanti tra gli stessi che applaudono votano contro i contenuti proposti dallo stesso Papa. Come valuta tale atteggiamento?
Posso solo sperare che le grandi folle che si radunano attorno al nuovo Papa non siano le stesse che approvano i parlamenti europei quando parlano di questioni etiche.
C’è chi – tra chi si dichiara cattolico – reputa che la lotta in materia antropologica non si debba fare in Parlamento, ma in parrocchia. Sarebbe più efficace. Lei che ne pensa?
Lo sarebbe certamente. Quella battaglia deve essere condotta nelle famiglie, a scuola, nelle piazze, nelle parrocchie, sui pulpiti, sui mezzi di informazione, prima ancora che arrivi nei parlamenti. Perché i parlamenti non sono più composti di élites che possono svolgere funzione educativa. Sono casse di risonanza e di accondiscendenza di ciò che accade fuori. Ratificano, non decidono.
Per finire: è ancora possibile che si manifesti con forza nella società una grande alleanza sui temi antropologici tra chi, credente o non credente, si attiene ai principi fondamentali della dottrina sociale della Chiesa su vita e famiglia? In Francia ad esempio è successo con la ripetuta e massiccia partecipazione di cittadini soprattutto cattolici, ma anche ebrei, musulmani, protestanti, agnostici alla Manif pour tous… anche se Hollande – un vero campione di democrazia… – ha scelto sostanzialmente di minimizzare, anzi ignorare de facto tale grande espressione di volontà popolare…
No, non lo ritengo possibile, comunque penso che sia poco probabile, almeno in quest’epoca. D’altro canto, la Chiesa medesima mostra di avere problemi con la sua stessa dottrina sociale. Minimizza pur essa. A noi manca oggi uno che scriva il De civitate Dei mentre l’Impero Romano andava a fondo. Ed era l’Impero Romano, non l’Unione Europea! Come vede, è meglio che chiuda qui.