Una situazione drammatica in cui i rancori tra sunniti e sciiti rendono tutto più difficiledi Gianandrea Gaiani
Il dilagare delle milizie qaediste dell’Isis nel Nordovest dell’Iraq giunge inaspettato solo perché l’Occidente e gli Stati Uniti non hanno voluto vedere una situazione che negli ultimi anni si è andata progressivamente deteriorando. I 14 miliardi di dollari investiti da Washington per addestrare le forze di Baghdad sono ormai un ricordo sbiadito, dal momento che, dopo il ritiro dei soldati e dei consiglieri militari americani, nessuno ha più impartito un serio addestramento alle truppe e ai poliziotti di Baghdad. I quasi 300 mila soldati arruolati, per lo più su base clientelare, puntano soprattutto a prendere lo stipendio mentre le discriminazioni attuate dal governo scita di Nouri al Maliki, nei confronti della minoranza sunnita, hanno portato parte della popolazione del Nordovest a sostenere di nuovo i qaedisti (come accadde dopo la caduta di Saddam Hussein) e i militari sunniti a disertare in massa.
Il tracollo delle forze regolari irachene è cominciato a gennaio quando lo Stato Islamico di Iraq e Sham (Levante) ha invaso la provincia di al-Anbar i un’operazione che ai più apparve suicida. Invece 42 mila soldati iracheni non sono riusciti a cacciare poche migliaia di insorti da Fallujah e a fronte di poche centinaia di caduti hanno registrato migliaia di diserzioni. I rimpiazzi, giovani reclute scite arruolate nel centro-Sud, sono state sbaragliate dai veterani dell’Isis: interi reparti sono sbandati e le diserzioni si sono moltiplicate. Nel maggio scorso un interessante report di Adnkronos/Aki registrava il collasso delle truppe di Baghdad e l’assenza di piani concreti per contrastare i qaedisti che, nell’ultima settimana, hanno messo le mani su Mosul, Tikrit, Samarra mettendo quasi sempre in fuga i militari, salvo poche eccezioni ritiratisi senza combattere. I militari iracheni sono stati cacciati anche da Kirkuk, importante area petrolifera occupata, però, dai miliziani curdi che da tempo la rivendicavano e che sono oggi forse l’unica forza combattente a Nord di Baghdad in grado di contrastare le milizie dell’ISIS.
Il quadro strategico non ha nulla di cui stupirsi e quanto sta accadendo a Baghdad (dove il panico dilaga al punto che ieri in Parlamento erano presenti meno di un terzo dei deputati, rendendo così impossibile persino decretare lo stato d’emergenza nazionale) è già accaduto a Saigon nel 1975 e accadrà probabilmente a Kabul nel 2017. In Vietnam gli statunitensi si ritirarono nel 1972 senza aver sconfitto il nemico così che le forze locali, guidate da un governo inetto e corrotto, sbandarono di fronte all’offensiva di primavera di vietcong e nordvietnamiti. In Iraq gli Stati Uniti sono entrati nel 2003 mentendo sui legami tra Saddam Hussein e al-Qaeda ma non sulle armi di distruzione di massa del raìs che, nonostante la vulgata diffusa, vennero trasferite in Siria con aerei cargo e convogli pochi mesi prima dell’invasione anglo-americana. L’obiettivo di quella guerra era, nell’ottica dell’Amministrazione Bush, portare la democrazia nel Paese mediorientale, dominato dal regime più abietto, per farla germogliare e diffondere come antidoto al terrorismo in tutto il mondo arabo e islamico. Obiettivo fallito, anche se le primavere arabe sono in parte una diretta conseguenza, almeno nello spirito libertario che le ha animate nella fase iniziale, di quella guerra. Il ritiro affrettato voluto da Barack Obama nel 2011 ha lasciato la guerra incompiuta: la democrazia irachena e le sue forze armate ancora troppo deboli e i qaedisti ancora troppo forti.
Come in Vietnam gli Usa si sono ritirati prima di aver conseguito la vittoria, ma questa volta forse non solo per stanchezza. Non sfugge infatti che tutte le iniziative dell’Amministrazione Obama dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Libia all’Ucraina vengono definite fallimentari da molti analisti. Una valutazione corretta solo se si considera ancora l’America una potenza stabilizzatrice. Se invece valutiamo che oggi Washington non ha più bisogno del petrolio e del gas del Medio Oriente e che sta diventando non solo autosufficiente sul piano energetico ma addirittura il più grande esportare di energia del mondo, allora non possiamo non comprendere come il caos in questa regione rientri nei nuovi interessi statunitensi. Grazie a shale gas e shale oil gli Usa, non solo non hanno più interesse a stabilizzare le aree energetiche, o attraversate da oleodotti e gasdotti, ma hanno al contrario tutto l’interesse a portarvi caos e destabilizzazione, poiché queste regioni restano di primaria necessità per i rivali economici di Washington: Cina, Russia, Europa, India, Giappone….
In quest’ottica i “fallimenti” di Obama diventano importanti successi di un’America ormai divenuta potenza destabilizzatrice. Il ritiro dall’Iraq, il tergiversare sulla Siria e sul contrasto al programma nucleare iraniano, la guerra alla Libia di Muammar Gheddafi e persino il sostegno alla rivoluzione in un'Ucraina attraversata dai gasdotti hanno prodotto un unico risultato: rendere instabili e insicuri gli approvvigionamenti energetici mettendo in difficoltà tutte le potenze industriali e rendendo più appetibile il costoso gas americano, che per essere esportato via nave deve prima essere liquefatto e poi rigassificato a destinazione.
Per queste ragioni è inutile attendersi da Washington soluzioni alla crisi in Iraq che emerge oggi come pesante fardello per i Paesi vicini, dalla Turchia all’Iran, alle monarchie del Golfo. Così come dopo il ritiro dall’Afghanistan la minaccia di talebani e qaedisti verrà “ereditata” da russi, cinesi, indiani e repubbliche ex sovietiche. Scenari drammatici a oriente ai quali l’Europa non potrà disinteressarsi e che si aggiungono quelli altrettanto foschi in Nord Africa e Sahel e alla crisi insoluta in Ucraina.