Il lento movimento che individuiamo all’interno del testo biblico non è un movimento all’indietro, di un eterno ritorno alla vagheggiata età dell’oro, è un movimento in avanti…
di Guido Benzi
Ogni popolo ha un suo inno, ufficiale come l'inno nazionale o semplicemente condiviso come avviene allo stadio tra coloro che tifano la stessa squadra. I nostri ragazzi sono bravissimi, attraverso gli strumenti multimediali, a commentare le foto che si scambiano al computer, con frame musicali o citazioni sovraimpresse. Nel cellulare possiamo attribuire suonerie diverse a chi ci chiama, creando così dei jingles personali: il basso insistente della quinta di Beethoven al capoufficio o alla suocera, il motivo romantico per la persona amata, la marcetta vivace per i colleghi del club sportivo o le amiche del burraco. Lo diceva già Aristotele: l'uomo è un vivente logon echon, dotato non solo di parola, ma di espressività. Suoni, gesti, immagini e parole, interi discorsi e racconti, sono quei fili sottili, a volte sottilissimi, ma resistenti, che tessono le nostre relazioni di ogni giorno, e spesso legano il nostro presente al passato e al futuro, donando alla memoria le sue coordinate, suscitando quei sentimenti, quei pensieri e quelle emozioni che ci appartengono e ancor più ci identificano.
Parola, racconto e vita
Ogni parola, intesa nel senso più ampio di espressione, è di fatto un motore di vita perché inserisce la persona in un universo di significazione, le permette di comunicare e di condividere. Nessuno impara a parlare da solo, nessuno si dà da solo un linguaggio. Tutti abbiamo ricevuto il nostro parlare da qualcun altro, come una legge non scritta (solo dopo alcuni anni saremmo stati introdotti alle regole di grammatica e sintassi) donataci da chi ci voleva bene, perché potessimo crescere e comunicare. All'origine di ogni essere umano sta questa chiara marca di trascendenza, di un dono che ci ha raggiunto dall'esterno, da un altro. Per questo, nell' esperienza religiosa comune ai popoli, c'è il ricordo, il chiaro segno del dono, da parte della divinità, di una parola che interpreta la vita e disvela il suo significato più profondo, la sua origine e il suo destino.
Questa dimensione è massimamente vera per la Bibbia, che si propone come grande comunicazione di Dio all'uomo, come parola (e legge, perché ogni parola è una legge) donata da Dio all'uomo per entrare in intimità con lui. Ce lo insegna il n. 2 della Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II: «Con questa rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé». E papa Gregorio Magno, interrogato sulla Bibbia da Teodoro, medico dell'Imperatore (anno 595), scrive:
Cos' è infatti la Sacra Scrittura se non la lettera di Dio onnipotente alla sua creatura? Se ti trovassi lontano e ti raggiungesse una lettera dell'imperatore non ti daresti pace, non chiuderesti occhio senza aver preso conoscenza del contenuto di quella lettera. Or bene, il re del cielo, il Signore degli uomini e degli angeli ti ha scritto una lettera che riguarda la tua vita ("pro vita tua") e tu, illustrissimo figlio, non ti curi di leggerla con amore ardente? Cerca dunque, ti prego, di meditare ogni giorno le parole del tuo Creatore. Impara a conoscere il cuore di Dio mediante le parole di Dio.
Tutto questo è vero per i grandi racconti biblici dell' Antico Testamento, come l’Esodo, le narrazioni patriarcali, Giobbe, i Salmi, e anche per i racconti del Nuovo Testamento, primi fra tutti i Vangeli, dove al veicolo narrativo si somma quello della testimonianza. Rimane vero però anche per i racconti «minori» come quelli che abbiamo commentato nella presente annata di Parole di vita. Il c. 16 della Lettera ai Romani, ad esempio, dove Paolo invia i suoi saluti a persone conosciute e a lui legate della comunità di Roma non è meno intenso, nel suo significato, dei grandi capitoli più teologici della lettera. Così le storie rurali, popolari e romanzesche di Rut, Ester, Giuditta e Tobia, non sono meno importanti delle grandi epopee di Abramo, Mosè o della vicenda di Giobbe. Anzi esse testimoniano come la parola di Dio riesce a continuare a illuminare la vicenda del popolo credente in un tempo in cui l'Israele di Dio è un popolo disperso tra gli altri popoli, che ha perso la libertà civile e religiosa ed è perseguitato.
Questi testi sono così il chiaro segno di una speranza fondata sulla fede che continua a sostenere il popolo, una speranza radicata in particolar modo negli umili, nelle donne, nei poveri. Una speranza che si radica sul dono della legge e sulla sua osservanza in quanto strada di giustizia e di vita buona, come accade a Tobi il padre di Tobia, o a Giuditta. Una speranza che apre alla carità e al superamento delle differenze etniche come avviene in Rut. Una speranza che diventa dovere di responsabilità politica, costi quel che costi, in Ester.
Caso mai la Bibbia presenta una differenza, non qualitativa o quantitativa, ma diremmo "genetica" all'interno dei suoi racconti. Tale distinzione indica anche una preziosa pista interpretativa e teologica. Non vi è dubbio che all'interno della Torà, del Pentateuco, troviamo quello che è stato chiamato il «racconto fondatore, compreso tra due limiti precisi, l'inizio del mondo e la morte di Mosè» (1), tale racconto funge da riferimento costante alla riflessione biblica, a tal punto che i racconti successivi, l'opera profetica, persino la riflessione sapienziale non sono altro che una continua ripresa creativa, una riscrittura sapiente della trama del racconto fondatore, e una ricomposizione delle sue "figure". Si pensi, ad esempio, a come il tema dell'«apertura delle acque» che compare primariamente in Genesi (Gen 1,6-8) e costituisce uno dei segni fondamentali della potenza di Dio nella Pasqua ebraica (Es 14), diventi uno dei tratti costitutivi in narrazioni successive come quella dell'entrata nella terra promessa (Gs 3) e l'inizio della vicenda profetica con Elia ed Eliseo (2Re 2). È vero o no che si possono riconoscere nella trama del libro di Tobia, la vicenda di Abramo e Sara e di altri racconti patriarcali? E il sacrificio personale di Ester di fronte al re Assuero, rimanda o no ad alcuni tratti al femminile del sacrificio di Isacco? E Rut, straniera in Israele, non è controfigura di Giuseppe, straniero in Egitto?
Sbaglieremmo però se pensassimo che si tratti solo di un "gioco" letterario, quasi che il racconto fondatore fornisca alla letteratura biblica quell'"immaginario" fondamentale, come una riserva archeologica di figure, alle quali la tradizione biblica poteva attingere a piene mani. Benché la Torà mantenga un valore di significazione fondamentale, sono le sue riscritture che ne raccolgono la forza e la spingono verso il compimento.
Il lento movimento che individuiamo all'interno del testo biblico dunque non è un movimento all'indietro, di un eterno ritorno alla vagheggiata età dell'oro, è un movimento in avanti: «qui c'è di più» dirà la voce di Gesù (Mt 12,38-42) riferendosi a Giona, alla Regina di Saba e a Salomone. Il movimento del racconto biblico e delle sue figure non ricusa il confronto con il "gioco" letterario, ma supera di un balzo la dialettica della citazione all'indietro perché esso spinge in avanti spinge verso la vita, verso il corpo e la carne.
Riconoscimenti
Se è vero, che il racconto biblico trova nelle sue riscritture un continuo invito al futuro, al suo compimento, non è meno vero che tale raccontò trova, a ogni fase, a ogni passaggio una comunità che lo riceve e trasmette e, nella comunità, un lettore che lo rilegge e lo interpreta.
L'epoca attuale ha scandagliato approfonditamente l'apporto del lettore nella interpretazione di un testo scritto (2); ogni testo narrativo infatti tende a coinvolgere il lettore nell'intreccio della storia raccontata: il racconto realizza quella che Hans Georg Gadamer chiamava la «fusione di orizzonti» tra il mondo narrato e il mondo di chi legge. Possiamo così pensare che tra i tanti lettori dei racconti biblici ci siano stati anche coloro che, anonimi per noi, hanno poi tracciato quelle storie che ci sono giunte sotto il nome di Rut, Tobia, Estèr, Giuditta.
Il racconto fondatore letto e riletto nella comunità, genera così altre narrazioni che in qualche modo ne mediano il messaggio in varie epoche, o in contesti culturali contigui, e permettono a nuovi lettori di avvicinarsi al testo biblico e al suo messaggio. La narrazione di Giuditta, che vede nel proprio background i racconti patriarcali e quelli riguardanti il periodo dei giudici, è da questo punto di vista emblematica. Se il tema della disfatta/vittoria di fronte al nemico esige nei racconti delle origini d'Israele l'assoluta fiducia nel Dio dei padri a tal punto che il nemico Sisara sarà vinto non dal generale in campo ma dalla guida della profetessa Debora e dall'opera di Giaele, una donna coraggiosa, in Giuditta vediamo riproporsi il medesimo schema ma ampliato al tema del rifiuto della divinizzazione del sovrano assoluto e della totale fiducia nella promessa e nell'alleanza del Dio d'Israele, unico e vero Dio.
Il movimento dunque è quello di un vero e proprio incontro tra la narrazione biblica che spinge in avanti, verso il futuro generando altre riprese e la mediazione culturale e teologica svolta nei vari contesti dagli autori biblici che permette ai lettori di risalire la corrente verso il racconto fondatore. Questo movimento trova il suo apice in un riconoscimento identitario di carattere religioso che insieme è la riconferma di essere sulla scia di quei padri e nello stesso tempo punto di partenza, base di lancio, per ulteriori riprese e ulteriori riscritture. Si potrebbe dire che il "riconoscersi" in un racconto è un vero e proprio appuntamento che la narrazione biblica pone davanti agli occhi dei suoi lettori.
Vediamo qui che il processo di "riconoscimento" è almeno duplice: personale e comunitario. Entrambi questi aspetti vanno tenuti insieme, anche se la più elementare conoscenza della religiosità biblica ci dice che nel passato era prevalente il secondo, quella collettivo, mentre per il gusto moderno è senz'altro prevalente il primo.
Il "riconoscimento" comunitario riguarda l'intero intreccio della narrazione, il gioco delle forze in campo, il dramma che appare nei momenti di svolta del racconto. Certamente nei testi che sono stati presi in esame in questa annata di Parole di vita, tale dramma riguarda l'agire di Dio che da vero regista della storia opera e dispone "da lontano" gli elementi e gli snodi per una sua risoluzione positiva, senza però ovviare a passaggi difficili (e per questo più drammatici) nei quali egli si avvale della libera azione di uomini e di donne che accordano a lui fiducia. In questo caso elementi come la preghiera nella situazione difficile, l'atto di totale, libera e fiduciale abnegazione dell'eroina o dell'eroe in campo hanno uno sviluppo narrativo molto maggiore rispetto al racconto fondatore. Mentre in Gen 22 non conosciamo alcuna immediata reazione di Abramo alla richiesta da parte di Dio di sacrificare il figlio Isacco, e neppure in 1Re 16,.13 abbiamo alcuna reazione di Samuele o di Iesse alla scelta del giovane Davide (il quale fa una sua professione di fede – ma non una preghiera – prima di sconfiggere il filisteo Golia, .1Re .17,45-48), in Ester (4, .17a-z) e in Giuditta (c. 9) abbiamo un' accorata preghiera. Il "riconoscimento" comunitario tende così a rafforzare l'identità religiosa, nella fatti specie a rincuorare un Israele disperso e non più confortato da una qualsivoglia identità politica ma che trova coraggio nella sua storia di elezione da parte di Dio.
Il "riconoscimento" personale segue altre strade anch' esse segnate nei testi da un'attenta strategia (3). Ovviamente c'è prima di tutto una disanima delle varie scene che si ritrovano all'interno del testo e un confronto con l'agire dei vari personaggi: chi sono? Quando entrano o escono di scena? Vediamo che lo stile dei racconti che abbiamo esaminato tende in tal senso a rallentare il ritmo: se nulla sappiamo dell' abbigliamento di Sara o di Abramo, lunghe digressioni di splendido gusto orientale accompagnano Ester e Giuditta nel loro apprestarsi all'impresa. Questo effetto di rallentamento aiuta il lettore a entrare nei personaggi, a immedesimarsi, e a entrare nell'azione stessa non solo attraverso l'udito, ma anche attraverso il tatto, l'olfatto, la vista, e persino il gusto.
All'interno delle varie scene si trovano i «bivi narrativi» cioè quelle situazioni in cui un personaggio compie una decisione davanti a più alternative. Tali momenti sono importanti perché il fatto di rilevarli rende il testo non scontato. Il "riconoscimento" personale, nella storia solleva qui la domanda su cosa si farebbe al posto del personaggio. E come un invito a sovrascrivere sulla storia biblica la propria storia. Il testo di Est 5 è assai interessante in tal senso perché ci mostra l'eroina fiera e bella, ma ci fa percepire la sua paura interiore nel presentarsi al re Assuero. Il "riconoscimento" personale tende così a rafforzare la dimensione interiore, decisionale (potremmo anche dire senza forzature "vocazionale") della persona che si sente chiamata a confrontarsi con i sentimenti, le paure e le decisioni del personaggio. In questo confronto la persona elabora una sua propria storia e le sue proprie decisioni nell' ambito di quella storia.
Entrambi gli aspetti, personale e comunitario, del riconoscimento disegnano una trama di relazioni tra il racconto e la vita e generano possibilità di dialogo e confronto. Tale dialogo, sostenuto dallo scritto biblico quale punto di riferimento imprescindibile e immutabile, genera una capacità di testimonianza che diventa patrimonio comune, attestazione di fede, capacità di coniugare la propria speranza all'interno delle vicende di vita.
Il dramma del compimento
Abbiamo provato a definire questo processo del "riconoscersi" in una storia come un appuntamento. Ora una caratteristica delle storie bibliche, anche di quelle presenti nei testi evangelici soprattutto nelle parabole, è una specie di scarto, di sensazione di "non finito", che fa ripartire il racconto anche al di fuori di esso. La stessa Torà finisce quando Israele è sulle soglie della terra promessa, ma non vi è ancora entrato! E Mosè sarà escluso da questa entrata. La splendida storia di Davide finisce con il re carico di anni e di acciacchi e le trame di corte, dalle quali, non senza sotterfugi, esce come erede Salomone, senza che Davide sia ancora morto. Nello stesso Cantico dei Cantici la sposa non è pronta all'incontro con lo sposo (Ct 5) e nella finale del libro di Ester, quando si istituisce la festa di Purim, delle «sorti», si sottende il fatto che il dramma si può ripetere, e che sempre Dio sarà chiamato a "invertire" le sorti del suo popolo. Chi di noi poi sa e può dire se il figlio maggiore, nella parabola del Padre misericordioso, sia o no entrato per partecipare al banchetto? Questi scarti dicono che l'appuntamento pieno non può avvenire se non con la vita, con il corpo e la carne.
Il mistero dell'incarnazione, unico e irripetibile nel grembo di Maria, pervade e illumina tutto il racconto biblico, nel suo cammino verso il compimento. Gesù, nella sua vicenda personale, è accolto o rifiutato all'interno di questo movimento, di questa attesa che anima il popolo biblico. Egli porta a compimento il riconoscimento della dignità di ogni uomo con il dono di sé sulla croce, quando cessa ogni parola, e con la sua risurrezione là dove la parola è affidata alla testimonianza credente:
La croce del Cristo è la chiave delle Scritture proprio perché essa rivela ai popoli la chiave della loro storia e la mostra loro negli umani che questi popoli rigettano. Le loro storie passate possono non separarli più: ce lo garantisce la testimonianza che sul vuoto della croce si sono manifestate, lungo la durata di un racconto, la sparizione dell'inizio e la voce che crea. Tutti i racconti ci sono solo per sparire nel presente dell'incontro, e la Bibbia non fa che indicarne il cammino (4).
(da Parole di vita, anno 2011, n. 6, p. 26)
1) Su questo concetto di «racconto fondatore» tutta l'esegesi contemporanea è largamente debitrice alla riflessione di Beauchamp. Per la citazione cf. P. BEAUCHAMP, L'uno e l'altro Testamento. 2. Compiere le Scritture, Glossa, Milano 2001, 194.
2) Un nome per tutti nella critica letteraria contemporanea è quello di Umberto Eco. Si può trovare una feconda restituzione teologica di queste teorie nel piccolo saggio di M. TIBALDI, Il Codice Abramo, Pardes edizioni, Bologna 2009.
3) Seguiamo TIBALDI, Il Codice Abramo, 27-31.
4) BEAUCHAMP, L'uno e l'altro Testamento, 2, 446.