“Per fortuna c’erano i pinoli”, della giornalista Margherita De Bac, affronta la malattia sofferta da molte adolescenti e indica come combatterla
Si chiama Domitilla ma potrebbe avere molti altri nomi, tutti quelli delle adolescenti che come lei soffrono o hanno sofferto di anoressia: è la protagonista di “Per fortuna c'erano i pinoli” (Newton Compton), il primo romanzo di Margherita De Bac, giornalista del Corriere della sera. Esperta di tematiche legate a sanità, medicina e bioetica di cui scrive oltre che sul Corriere della Sera, sui settimanali Sette e Io Donna, De Bac ha voluto lanciare un messaggio positivo che serva ad incoraggiare quanti si trovano a dover affrontare questo male oscuro: l’anoressia si può battere. In che modo lo racconta l'autrice stessa ad Aleteia.
Il libro nasce dalla tua esperienza professionale di giornalista sui temi della salute?
De Bac: Lo spunto è senz'altro legato ai temi di cui mi sono occupata nella mia professione. Avevo intenzione di scrivere un romanzo, ma non volevo che fosse un'opera di pura fantasia. Quando una ragazza che ho incontrato mi ha affidato il diario nel quale aveva raccontato i cento giorni trascorsi in una clinica a 14 anni per curare la grave forma di anoressia nella quale era caduta, ho capito di aver trovato la mia storia. "Per fortuna c'erano i pinoli" è un romanzo che parla di anoressia, ma con mano che vorrei definire "leggera". L'intento è avvicinare a questo tema, che purtroppo riguarda molti giovani, senza spaventare, con la stessa consegna che ho sempre seguito nella mia vita professionale: rendere facili gli argomenti difficili, senza – ovviamente – banalizzarli.
E' cambiata la percezione di questo problema nel tempo?
De Bac: Gli adolescenti afflitti da disturbi del comportamento alimentare sono in aumento perchè si tratta di disturbi caratteristici dell'epoca moderna piena di tante sollecitazioni positive e negative. Io ne ho scritto diverse volte sul Corriere della Sera, ma in genere non se ne parla molto sui giornali. Occorrerebbero invece iniziative di sensibilizzazione per affrontare questi problemi nella maniera giusta, senza terrorizzare con troppe statistiche e numeri. Grazie alla collaborazione con il sindaco Ignazio Marino e il Comune di Roma che ha organizzato una presentazione del libro al Campidoglio con 250 studenti, sto facendo una fantastica esperienza di incontri nelle scuole della capitale, nelle quali sono stata invitata "a cascata" per parlare del romanzo. Mi rendo conto, interloquendo con gli adolescenti, soprattutto le ragazze che sono le più esposte, che spesso c'è un problema di conoscenza e c'è bisogna di diffondere un messaggio positivo che inviti i ragazzi a non aver paura o vergogna nel riconoscere il problema e raccontarlo. Il dialogo con gli amici, se non con i genitori verso i quali di solito si nutrono delle remore, può aiutare prima che diventi troppo tardi e la malattia cronicizzi.
Il romanzo è incentrato sull'amicizia come forza per uscire dalla malattia: può bastare a combattere l'anoressia?
De Bac: Io guardo al mio romanzo come a un "polpettone" all'americana, nel senso che è ispirato all'ottimismo e al lieto fine, ma è basato su dati scientifici. Mi sono documentata e ho parlato con molti esperti di anoressia che mi hanno confermato come parlarne – soprattutto agli esordi, quando il disturbo è ancora latente e chi lo vive non ne è del tutto consapevole -, trattandosi di un disturbo che nasce dal disagio interiore, la scarsa stima di sè, la non accettazione del proprio corpo, significa fare già un passo avanti e avere più probabilità di uscirne fuori e magari in fretta.
Oltre che dai ragazzi, dopo la pubblicazione del libro, hai avuto riscontri anche da parte di genitori o famiglie?
De Bac: Non immaginavo che tante famiglie italiane, tanti genitori e nonni, avessero conosciuto da vicino questa malattia attraverso l'esperienza di figli o nipoti. Davvero in tanti mi hanno avvicinato per farmi domande. Credo che il libro possa essere utile per contribuire a comunicare in maniera positiva un problema che coinvolge oggi tanti giovani, ma senza fare "terrorismo" psicologico che potrebbe avere un effetto ancora più deleterio.