Operazione “revisionista” del classico di Perrault che convince solo in partedi Laura Cotta Ramosino
Maleficent è l’ennesima rivisitazione a marchio Disney delle fiabe tradizionali che abbiamo conosciuto in cartone animato (La bella addormentata originale, in un elegantissimo disegno bidimensionale e con musiche adattate da quelle del balletto di Ciajkovskij, uscì al cinema nel 1959, con incassi deludenti, ma vinse un Oscar per la colonna sonora, che resta in effetti indimenticabile). Operazione già iniziata con risultati contraddittori (ottimi al botteghino, un po’ meno dal punto di vista artistico) con Alice in Wonderland.
L’intento “revisionista” è qui ancora più pronunciato che nel caso precedente, come si intuisce fin dal titolo: trasformare una delle “cattive” più iconiche della storia dei cartoon nell’eroina femminista e ambientalista di una fiaba in cui, con l’eccezione di Fosco (l’aiutante della fata cattiva che però nasce come corvo), i personaggi maschili sono tutti cattivi, pazzi, traditori, violenti o semplicemente tonti.
Se resta (e come avremmo potuto farne a meno?) l’incantesimo che condanna al sonno eterno la povera Aurora (ma con una sorpresa sulla natura del bacio del vero amore che non dovrebbe lasciare del tutto “sorpresi” gli spettatori di Frozen), il resto della storia subisce un poderoso restyling che convince solo in parte.
Soprassedendo sulla scelta di Malefica come nome originale della protagonista (quantomeno curiosa, visto che si tratta di una fata dall’aspetto forse un po’ inquietante, viste le corna, ma gentile e benefica), tutta la backstory che ci racconta la storia d’amore interrotta tra lei e il futuro re Stefano appare insieme affrettata e forzata, a meno di non dare per scontato, appunto, che gli uomini siano per forza avidi e malvagi.
Privata delle sue ali e disillusa sul vero amore, Malefica può trasformarsi nella furia nerovestita che conosciamo (con tanto di corvo mutaforme al seguito) e scatenare la sua vendetta. Tanto né il fedifrago Stefano, né il terzetto di fate “buone” (qui ancora più inette e sciocche che nell’originale) hanno la statura per opporsi in qualche modo a lei. Come suona il detto, “non c’è furia all’inferno peggiore di una donna respinta…”, e fuoco e fiamme farà anche Malefica prima
delle fine sella storia…
La storia e la sua protagonista Angelina Jolie convincono di più quando finalmente si permettono un po’ di umorismo (pericolosamente latitante altrove) nel momento in cui Malefica, decisa a tenere d’occhio la piccola, deve lottare contro il disarmante affetto della piccola e ignara Aurora (la “bestiolina”), che finisce per considerarla la sua fata madrina.
Una delle maggiori delusioni della storia è il principe Filippo, nell’originale un simpatico guascone che, insieme al suo cavallo, offriva alcuni dei momenti di alleggerimento più godibili della vicenda e che qui, invece, è poco più che un pupazzo di bell’aspetto senza alcuna vera iniziativa.
E, in effetti, il vero amore di cui si vuole parlare qui non è mai quello tra uomo e donna, che fa capolino solo come innamoramento adolescenziale e finisce per riservare unicamente tradimenti e delusioni, ma quello materno e riluttante di Malefica, che sarà la chiave della rinascita per il mondo magico e per quello umano in una rilettura molto women power che sa tanto di omaggio al mainstream corrente, ma che convince assai meno che nel recente Frozen.
Visivamente la pellicola è suggestiva (anche se il 3 D a volte appare la sola giustificazione di scene di battaglia non sempre narrativamente motivate) e la variazione sulle eleganti immagini del classico del ‘59 è fantasiosa (del resto il regista Stromberg viene dalla fotografia), ma dalla sceneggiatrice di La bella e la bestia sarebbe stato lecito aspettarsi qualcosa di più di questo revisionismo sentimentale che in certi momenti è più vicino alla soap che alla fiaba e alla grande tragedia.